“Voi siete la luce del mondo”

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Appunti per l’omelia della Domenica dei Padri dei primi sei Concili Ecumenici

Letture:
Apostolo: Tito 3, 8-15
Evangelo: Matteo 5, 14-19

“Voi siete la luce del mondo”, dice il Signore.
A che serve la luce? Semplice: a illuminare. Per questo la luce va messa in alto: più in alto è, più persone potranno vederla splendere. E più forte sarà questa luce, più sarà possibile vederla da lontano.

Si fa spesso un errore nell’interpretare questo detto evangelico. Noi siamo portati a intendere questa luce in senso morale. Questo non è sbagliato, di per sé; la fede cristiana ha anche le risposte agli interrogativi morali dell’uomo. E spesso l’interrogativo morale è nell’uomo quanto di più vicino possa esserci all’interrogativo spirituale. Così può accadere che qualcuno si avvicini alla fede grazie a questo suo aspetto più “umano”, che è appunto l’etica. Sbagliamo però se intendiamo questa luce solo in senso morale, sbagliamo, cioè, se riduciamo la nostra testimonianza di fede a una testimonianza di tipo morale.

“Splenda la vostra luce davanti agli uomini, affinché vedano le vostre opere buone e glorifichino il Padre vostro che è nei cieli”: nessuno potrà vedere le nostre opere buone, se non avrà visto anche la nostra luce, la luce della fede da cui quelle opere sono originate. E nessuno potrà vedere la luce della nostra fede se non nelle nostre opere. Noi spesso ci illudiamo, pensando che gli altri possano vedere le nostre opere e vedere poi la fede che c’è dietro. Questo però non accade quasi mai, per due motivi fondamentali.

Il primo motivo è che non sempre le nostre opere sono così lineari, così cristalline. “Non c’è uomo che viva e non pecchi, Tu solo infatti sei senza peccato” Spesso le nostre opere sono contraddittorie. A volte non sono affatto buone; diamo spesso un pessimo esempio di noi, e questo sì che agli occhi del mondo è visibile! Il mondo vede le nostre cattive opere molto più di quanto veda quelle buone. E non di rado gli altri vedendo le nostre cattive opere sono scandalizzati e rifiutano la nostra fede. Come sono i cristiani agli occhi del mondo? Litigiosi come gli altri, bugiardi come gli altri, ladri come gli altri, adulteri come gli altri. E quando non appaiono così, appaiono come farisei pronti al giudizio e alla condanna verso il prossimo.

Il secondo motivo è più interiore. Noi molto spesso trasformiamo la nostra fede in un sistema più o meno ordinato di osservanze: assistere alle Funzioni religiose in chiesa, fare i digiuni, astenersi da certe azioni (considerate cattive) e cercare invece di farne altre (considerate positive). Tutte queste osservanze sono utili, ci aiutano nella nostra vita spirituale. Noi però spesso le trasformiamo in un modo per confortarci. È come se dicessimo: io sono un buon cristiano, perché a casa ho il mio angolo delle icone con davanti un lumino, e recito le preghiere del mattino e della sera. Ovviamente è una buona cosa avere un angolo delle icone a casa, ed è una cosa buona recitare le preghiere del mattino e della sera. Noi però non saremo giudicati da Dio  in base a questo: saremo giudicati in base a cosa abbiamo fatto (o detto, o pensato) dal momento in cui finiamo le preghiere del mattino fino al momento in cui cominciamo le preghiere della sera. Se ne deve dedurre che l’angolo delle icone e le le preghiere non servano a nulla? Niente affatto. Ci servono per aiutarci nella nostra vita di fede. Preghiamo al mattino per aiutarci a cominciare una giornata da cristiani, e la sera per concluderla. Però dobbiamo avere chiaro in mente che la cosa importante è di sforzarci a vivere da cristiani tutta la nostra giornata, cioè tutta la nostra vita.

Cosa dobbiamo fare, allora, per essere la luce del mondo?
San Serafino di Sarov diceva: “acquisisci il Santo Spirito, e mille troveranno la salvezza intorno a te”. E spiegava come i digiuni, le veglie, le preghiere non siano il fine della vita cristiana. Il fine della vita cristiana è l’acquisizione dello Spirito, e queste opere ci servono come un mezzo per arrivare al fine. Questo significa che da un lato queste cose sono indispensabili, da un altro sono invece secondarie. Sono indispensabili per divenire ricettacoli di Grazia, e per questo motivo, noi tutti dovremmo pregare di più, digiunare di più, vegliare di più. Sono secondarie perché nessuno di noi si salverà soltanto perché ha osservato questi precetti, e nessuno di noi si perderà soltanto perché non li ha osservati

Se vogliamo essere luce per il mondo dobbiamo innanzitutto vivere in Cristo. Non dobbiamo essere noi a vivere, ma Cristo deve vivere in noi, come diceva San Paolo. Non è nostra la luce che deve splendere. Per quanti sforzi possiamo fare la nostra luce non illuminerà nessuno. Sforziamoci di essere luci riflesse dell’unica luce realmente in grado di risplendere nelle tenebre, la luce di Cristo.

(Omelia del 18 / 31 Luglio 2016)

Sulla festa dei Santi Pietro e Paolo

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Quella dei Santi Protocorifei degli Apostoli Pietro e Paolo è una delle feste più importanti del menologhion. Ce ne rendiamo conto se consideriamo innanzitutto che questa festa è preceduta da un  periodo di digiuno. Ci sono solo altre tre feste precedute da un digiuno simile: la Pasqua, la Natività e la Dormizione. Così, già da questo, possiamo vedere che questo giorno, pur non rientrando nel gruppo delle dodici Grandi Feste del Dodecaorto, ha una sua importanza. Infatti il “Digiuno degli Apostoli” è molto antico.

Pietro e Paolo furono diversi sotto molti aspetti.

Pietro, il cui nome originale era Simone, non aveva una grande istruzione, e faceva il pescatore. Fu forse discepolo di San Giovanni Battista insieme a suo fratello Andrea, e fu posto dal Signore a capo del collegio apostolico. Fu il Signore stesso a mutare il suo nome in Kefà, che in aramaico significa “pietra” da cui viene il nome greco con cui lo chiamiamo ancora oggi. Questo soprannome ha fatto nascere purtroppo una incomprensione. Gesù dice infatti: “Tu sei Pietro, e su questa pietra edificherò la mia Chiesa”. Alcuni hanno pensato che qui il Signore si riferisse proprio alla persona di Simon Pietro, ma la pietra di cui parla Gesù non è Pietro, ma è la confessione di fede di Pietro.
Della sua vita noi ricordiamo soprattutto alcuni episodi, che ce lo mostrano per quello che era: un uomo di grande passione, pronto alla chiamata di Dio, ma anche debole. Pietro è il primo a credere, il primo a vacillare nella fede, il primo a ritrovare la fede. Lui per primo confessa la fede in Cristo come Figlio di Dio, lui per primo tradisce Gesù nella notte della Passione, lui per primo entra nel sepolcro vuoto.

Al contrario di Pietro, Paolo aveva studiato a Tarso, sua città natale, ed era stato discepolo a Gerusalemme di Gamaliele, uno dei più importanti maestri ebrei del tempo.

Paolo, il cui primo nome era Saulo, come il primo re di Israele, non conobbe il Signore in vita, ma lo vide solo in visione. In principio era stato, da fervente fariseo, uno strenuo oppositore della Chiesa, e si convertì a Cristo dopo una visione avuta proprio mentre si recava, con lettere di accompagnamento dei sacerdoti di Gerusalemme, a fare arrestare i cristiani di Damasco. Anche Paolo è un uomo di grande passione: si occupa senza risparmio delle sue comunità, procurandosi da vivere con il mestiere di tessitore di tende, e rischiando più volte la vita a causa della sua predicazione.

Probabilmente, proprio il loro carattere passionale (in senso buono) accomuna questi due Apostoli: nella Chiesa non c’è posto per i tiepidi, non c’è posto per chi vuole servire a Dio e al mondo. Pietro e Paolo mettono in primo piano Cristo. Per loro non c’è niente di più importante: nessun precetto è più importante di Cristo, nessun “canone” è più importante di Cristo, nessun segno esteriore.

“Tu sei il Cristo, il figlio del Dio vivente”, dice Pietro. E Cristo è il fondamento della Chiesa, ci insegna Paolo. E “nessuno può porre un fondamento diverso”.
Noi siamo chiamati così a professare la fede di Pietro e Paolo: la fede nel Cristo, Figlio del Dio Vivente e fondamento su cui è edificata la Chiesa.

Finché la fede dei cristiani rimarrà fondata su questa roccia, le porte dell’Ade non prevarranno contro di essa, come non prevarranno sulla Chiesa, perché essa è fondata sul Cristo Risorto dai morti, il Dio Vivente. Se però la fede dei cristiani si spegne e diventa tiepida, se  sostituiamo Cristo con un altro fondamento, per quanto possa essere nobile, allora noi non siamo più la vera Chiesa. Allora si ripeterebbe in noi il peccato dei Progenitori, poiché ciò che non è fondato in Cristo è fondato sull’uomo, e ciò che è fondato sull’uomo è pula sparsa al vento.

(Omelia del 29 Giugno / 12 Luglio 2016)

I Cretesi son tutti bugiardi

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156 i vescovi presenti, contro 134 assenti. Sessant’anni di preparativi, di assemblee e riunioni “preconciliari” per arrivare a questo. Il “Grande e Santo Concilio Panortodosso”  tenutosi nell’isola di Creta ha offerto al mondo intero uno spettacolo semplicemente indecoroso. I numeri sono il segno tangibile del fallimento, al di là dei risultati stessi, al di là della bontà o meno dei documenti sinodali prodotti.

I Cretesi son tutti bugiardi, male bestie, ventri pigri” scriveva San Paolo a Tito, citando un noto detto di Epimenide. E continua: “per questo motivo riprendili severamente, affinché siano sani nella fede, senza attenersi a favole giudaiche né a comandamenti di uomini che rifiutano la verità. Certo, tutto è puro per i puri, ma niente è puro per i contaminati e gli increduli; anzi, sia la loro mente che la loro coscienza sono contaminate. Essi fanno professione di conoscere Dio, ma lo rinnegano con le opere, essendo abominevoli, disubbidienti e incapaci di ogni opera buona” (Tt 1, 12-16)


Queste parole mi hanno dato molto da pensare, anche se ovviamente i vescovi convenuti a Creta non sono cretesi in senso stretto. Il luogo mi sembra però altamente simbolico. Quale significato dare alla riunione tra i Primati delle Chiese Ortodosse ufficiali? Mi provo a stendere poche semplici note di bilancio. Questo è ovviamente soltanto il mio punto di vista; il punto di vista di un sacerdote ortodosso appartenente a una Chiesa che ha deciso di rifiutare qualsiasi tipo di comunione con le Chiese ortodosse ufficiali.

Credo che si debba partire dal protagonista assoluto. Il Patriarcato di Mosca ha dominato le scene astenendosi dal partecipare all’evento ed ergendosi così a paladino dell’Ortodossia contro il Patriarca Ecumenico Bartolomeo. Pochi hanno voluto rimarcare un inevitabile dato politico: all’interno dell’ortodossia mondiale, il Patriarcato di Mosca conta più o meno la metà dei fedeli. Un dato che non era possibile far valere a Creta, viste  le regole stringenti, sulle quali c’era comunque un largo consenso che non può non suscitare stupore. Essendo un “Concilio” di Primati e di delegazioni (e non di vescovi in quanto vescovi), a Creta Mosca avrebbe contato più o meno quanto Costantinopoli. Perfettamente naturale che infine si sia scelto di far valere comunque i numeri. Mosca ha comunque saputo mantenere un equilibrio da fare invidia al Cardinale Richelieu: si è tenuta lontana dalla riunione, riconoscendola però come una (ennesima) conferenza preconciliare. Insomma, Mosca paladina degli ortodossi, ma con giudizio.

Coniugando motivazioni serie e quisquilie, anche altre Chiese erano assenti a Creta.
La Chiesa di Antiochia ha presentato alcuni argomenti di una certa importanza: l’inaccettabilità del documento preconciliare sul Matrimonio in primis, oltre alla non accettazione da parte antiochena delle regole procedurali del “Concilio”. E meno male. Almeno qualcuno aveva notato che in quelle regole c’era qualcosa di storto. C’è da dire che il motivo fondamentale dell’assenza dei delegati antiocheni è stata molto più probabilmente la presenza di quelli gerosolimitani. C’è infatti in corso una querelle di un certo peso tra i Patriarcati di Gerusalemme e Antiochia riguardo alla giurisdizione del ricco Qatar. Vile pecunia, insomma.

La Chiesa di Bulgaria si è tirata indietro adducendo alcune ragioni effettivamente ragionevoli (quali ad esempio il disaccordo su alcuni dei testi in discussione), ma anche le eccessive spese da sostenere…

La Chiesa di Georgia è riuscita a mostrarsi più coerente. Pur di frenare l’emorragia in atto al suo interno, ovvero i molti chierici e fedeli che lasciano la Chiesa ufficiale per unirsi alla Chiesa dei Veri Cristiani ortodossi di Grecia, essa ha anche abbandonato (fin dal 1997) il movimento ecumenico; ciononostante continua a mantenersi in comunione con le altre Chiese ufficiali.

Nonostante le regole prefissate fossero sfavorevoli a Mosca, l’assenza dei russi (per tacer degli altri) si è fatta comunque sentire. Eppure non sono mancati i trionfalismi: pochi ma buoni, andiamo avanti così, a costo di essere ridicoli. Questo sebbene i vescovi presenti a Creta non rappresentassero che un terzo dell’Ortodossia mondiale.

Per quanto riguarda l’esegesi dei testi sinodali, non ho intenzione di sbilanciarmi troppo. I testi non sono troppo dissimili da quelli preparatori e ognuno può leggerli da sé e farsene una idea. Sono scritti in politichese stretto, ma questo non dovrebbe essere un gran problema. In generale c’è un punto che sembra risuonare in modo assolutamente chiaro: il “Grande e Santo Concilio” ritiene che il dialogo ecumenico sia irrinunciabile sotto tutti i punti di vista, al punto di reputare “degni di condanna” quanti vi si oppongono in nome della purezza della fede. Questo nonostante tutti i distinguo sulle parole (c’è stata una discreta discussione sul fatto di considerare o meno come vere chiese le confessioni di fede occidentali): in definitiva una vittoria del fronte costantinopolitano e in particolare del Metropolita di Pergamo Ioannis Zizioulas, anche se solo una vittoria in sordina.

E qui vengono le considerazioni.

In primo luogo, è stato coerente il comportamento degli assenti? No, non lo è stato nel modo più assoluto. Avrebbero potuto partecipare e far saltare tutto, ma si sono limitati a guardare da lontano per evitare di sporcarsi troppo le mani. Se avessero partecipato non avrebbero potuto fare a meno di riconfermare l’assenso già dato a suo tempo ai documenti sinodali. Ovviamente esiste il diritto universale di cambiare idea su qualcosa. Personalmente però non ho ben chiaro se abbiano davvero cambiato idea.

In secondo luogo, perché i Patriarcati di Mosca, Antiochia e Bulgaria che, tutti, hanno espresso perplessità sul documento “Relazioni della Chiesa Ortodossa con il resto del mondo cristiano”  non abbandonano il movimento ecumenico? Vale quanto già detto: quel documento, a quanto pare, era stato firmato all’unanimità dai delegati della “Quinta Conferenza Panortodossa preconciliare”, tenuta a Chambesy nell’Ottobre del 2015. Quindi la domanda è: vogliamo giocare a fare i duri e puri dell’Ortodossia tenendo però anche un piede nel movimento ecumenico?

“Sia il vostro parlare: si,si; no, no” disse il Signore (Mt 5, 37). Anche sul piano della sincerità evangelica Creta è stata un fallimento. Abbiamo letto molti giri di parole e molta retorica da parte di chi vi si è recato. Abbiamo notato una non meno ampollosa retorica nei silenzi di chi non lo ha fatto. I cretesi son tutti bugiardi, ma anche gli altri non scherzano.

p. Daniele Marletta

Alcune utili letture (profane) per la Grande Quaresima

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Quello che scriverò ad alcuni potrà sembrare provocatorio, ma non è assolutamente questa la mia intenzione. È chiaro che durante la Grande Quaresima (e durante i digiuni in genere) sarebbe meglio bandire ogni lettura profana e dedicarsi interamente alla lettura delle Scritture e dei Padri della Chiesa. Questo significherebbe anche, ovviamente, rinunciare alla televisione e all’ascolto di qualsiasi genere di musica che non sia strettamente liturgica. Sono assolutamente convinto che una disciplina del genere sia l’ideale per un monaco, ma non credo che un laico, che vive ben più del monaco i problemi del mondo, possa sempre permettersi una tale condotta di vita. Temo che in alcuni casi essa possa addirittura essere dannosa: “zelo non secondo conoscenza” direbbe forse San Paolo. D’altra parte esistono molte opere letterarie che, pur essendo a tutti gli effetti “profane”, riescono ad essere portatrici di idee cristiane. Sono opere che parlano di storie del tutto umane, con protagonisti pieni di umanissimi difetti: storie di amore e di odio, di guerra, ma anche di pentimento, di redenzione. Molte di queste opere si prestano benissimo a sostituire altri svaghi nei periodi di digiuno. Non che nello svago in sé ci sia qualcosa di naturalmente sbagliato, questo è chiaro, ma se è possibile indirizzare a Dio anche lo svago, questo può diventare un momento di crescita spirituale.

Ecco dunque alcuni libri di cui raccomando la lettura.

I promessi sposi di Alessandro Manzoni
Gli italiani imparano ad odiare questo libro sui banchi di scuola, e questa è una delle supreme ingiustizie del nostro sistema scolastico. Sì, perché questo è davvero uno dei più bei romanzi di tutti i tempi, che dietro quella che è apparentemente soltanto una storia d’amore contrastato, cela tutta una serie di riflessioni profondamente cristiane. Soprattutto è un libro che parla del pentimento: il pentimento di Renzo di fronte alla propria incapacità di perdonare, quello di Ludovico, che decide di incamminarsi nella vita consacrata, quello dell’Innominato, uomo dai molti crimini che trova alla fine Dio.

David Copperfield di Charles Dickens
Questo libro è ciò che in termini tecnici si definisce in genere come un “romanzo di formazione”. Il protagonista (l’alter ego di Dickens) racconta in prima persona le principali tappe della sua vita, dalla perdita del padre, prima ancora di nascere, a quella della madre, passando per le mille avventure che lo faranno crescere umanamente e spiritualmente. Riferirò un piccolo aneddoto su questo libro. Un giovane che si era recato sul Monte Athos per farsi monaco, aveva chiesto all’Abate una lettura spirituale. L’Abate, uomo dalla vista spirituale acuta, gli consegnò una copia di questo libro e, alle proteste del giovane (che si aspettava un libro veramente spirituale e non un romanzo sentimentale vittoriano), affermò: “Se prima non riesci a sviluppare sentimenti normali, umani, cristiani, come David, qualsiasi lettura spirituale ortodossa sarà per te di scarso beneficio…”

Dov’è morte la tua vittoria? di Henry Daniel-Rops
Un bellissino romanzo a tinte forti, una storia di morte e resurrezione, dal titolo decisamente “paolino” (una citazione dalla prima Epistola ai Corinzi). Il romanzo racconta la storia di Laura, donna dal cuore inquieto che si lascia sprofondare, come ahimè accade in molte anime sensibili, nelle più basse passioni umane. Per poi trovare la luce di Dio. Viene in mente, leggendo questo libro, un passo famoso dalla Scala di San Giovanni Climaco: “Del resto io vidi persone follemente travolte da impuri amori trarre da essi motivo di penitenza, passare cioè dall’esperienza erotica a quell’amore del Signore che trascende ogni timore, da quello spronate ad un insaziabile ardore di divina carità. Per questo il Signore disse alla peccatrice tornata a saggezza non ch’ella aveva molto temuto, ma che aveva molto amato, e perciò era riuscita a scacciare un amore con un altro amore” [Scala, V, 54]

Delitto e castigo di Fedor Dostoevskij
Mi sembra quasi di fare un torto al grande scrittore russo se cito soltanto uno dei suoi romanzi. In realtà avrei potuto citare qui moltissimi dei suoi libri. Mi limito a questo, lasciandovi scoprire da soli gli altri, perché è anche questo un romanzo di morte e rinascita, la storia di un uomo che cade e si redime, rinascendo quasi come Lazzaro nel racconto dell’Evangelista Giovanni (un racconto che si ritrova non a caso citato in una delle più grandi pagine di questo libro).

Chiaramente ci sono moltissimi altri libri che varrebbe la pena di leggere durante la Grande Quaresima, e in realtà anche nel resto dell’anno. La televisione e Internet hanno ridotto molto il tempo dedicato alla lettura. Quale scusa migliore per lasciare finalmente una cattiva abitudine in favore di una buona? Quindi, che dire? Buona lettura!

p. Daniele

Ancora su Alessandro Meluzzi

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I lettori di questo blog non me ne vorranno se mi trovo nuovamente ad affrontare la questione di Alessandro Meluzzi.

Come è noto, il famoso psichiatra e criminologo è divenuto “vescovo” e Primate della cosiddetta “Chiesa Ortodossa Italiana”. In un post precedente ho fatto alcune considerazioni in merito. Ritorno sull’argomento solo a causa di una recente intervista / conversazione apparsa sul sito web di una parrocchia del Patriarcato di Mosca. In essa l’igumeno Ambrogio (Cassinasco) dialoga con Alessandro Meluzzi riguardo alla sua conversione e alla sua realtà ecclesiale. Inutile dire che tale intervista campeggia ora in gran trionfo anche sul sito della “Chiesa Ortodossa Italiana”, nonché sulla pagina Facebook, con un titolo significativo: Sono iniziati i primi contatti tra il Patriarcato di Mosca e la nostra Chiesa. Intervista del nostro Primate al sito della Chiesa ortodossa Russa di Torino. Anche se, a onor del vero, l’intervista la fa il sito al Primate e non il Primate al sito…

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Non è mia intenzione analizzare l’intera conversazione (sebbene essa offra più di uno spunto, non c’è che dire), ma intervengo soltanto perché nel corso di tale conversazione si fa riferimento a me e alle mie considerazioni su Meluzzi.

Comincio col chiedermi innanzitutto come mai l’igumeno Ambrogio, che ha modi generalmente sgradevoli nel trattare quanti egli ritiene (a torto o a ragione) “non canonici” o “scismatici”, sia così amabile e cordiale con il noto psichiatra. Posso capire che tra i due esista un’amicizia di lunga data, su cui non ho nulla da ridire, ma una così palese parzialità di trattamento mi lascia perplesso.

Veniamo però all’intervista. A un certo punto l’igumeno Ambrogio afferma:

In questi ultimi tempi ho letto non solo molti dei commenti sulla tua scelta religiosa, ma anche le inevitabili critiche, inclusa una critica teologica che in sé espone idee abbastanza ragionevoli, ma pecca di una fallacia logica di base: fa di te un vescovo ortodosso secondo la sua prospettiva (il famoso argomento dell’uomo di paglia), poi passa a trovare gli elementi nei quali tu non rientri in questa prospettiva, e conclude dichiarandoti non ortodosso e non ecclesiale. È proprio per questo che insisto che tu possa chiarificare la tua visione ecclesiale, in modo che si possa discutere sulla base delle tue convinzioni, e non di preconcetti altrui.

La “critica teologica” a cui si fa riferimento, come si vede chiaramente dal link, è l’articolo in cui espongo le mie considerazioni su Meluzzi e la sua Chiesa. Come si vede, la mia critica è accusata di “fallacia logica”. Io avrei cioè fatto di Alessandro Meluzzi un vescovo secondo la mia prospettiva, per poterlo meglio criticare. Tale operazione sarebbe una fallacia in quanto Meluzzi non sarebbe un vescovo ortodosso “in senso stretto”: la sua chiesa porterebbe infatti il nome di “chiesa ortodossa” senza pretendere che essa abbia un qualche legame con l’Ortodossia vera e propria. Si tratterebbe, secondo l’intervistatore, soltanto di un nome. In effetti gran parte della conversazione verte sul significato del termine “ortodossia” e l’intervistatore stesso suggerisce

Credo che la maggior parte dei problemi nasca dall’accostamento di un singolo nome. Se invece di un ente che si definisce “ortodosso”, tu ne rappresentassi uno che si definisce “apostolico”, “vetero-cattolico” o quant’altro, credo che non ci sarebbero stati molti sospetti di liaisons dangereuses, e verosimilmente anche alcune polemiche.

Questo è senza dubbio vero. Vera è altresì anche un’altra cosa: non è stato Alessandro Meluzzi a fondare la “Chiesa Ortodossa Italiana”, essa esisteva ben prima di lui e non è altro che il risultato di una serie di scismi all’interno della “Chiesa Ortodossa in Italia” fondata da Antonio De Rosso all’inizio degli Anni Novanta (tanto che oggi esistono almeno tre “Chiese Ortodosse Italiane” più altre con nomi simili). Ora, tale “Chiesa” – per quanto inconsistente dal punto di vista canonico ed ecclesiale – si richiamava però apertamente alla tradizione ortodossa, riconoscendo i sette Concili della Chiesa indivisa e la prassi tipica delle Chiese Ortodosse. La “Chiesa” di Antonio De Rosso fu per questo anche in comunione con il Sinodo alternativo di Bulgaria e con la Chiesa (scismatica) del Montenegro. De Rosso si proponeva in tutto e per tutto come vescovo della Chiesa Ortodossa (e proprio per questo era considerato da tutti scismatico e non canonico). La “Chiesa” che ha poi eletto a Primate Alessandro Meluzzi aveva la stessa “pretesa di ortodossia”: si rifaceva al primo millennio cristiano, riconoscendo i sette Concili della Chiesa indivisa e almeno in parte la prassi liturgica ortodossa. Fare riferimento ai sette Concili della Chiesa indivisa significa, ricordiamolo, fare riferimento all’Ortodossia calcedoniana ed efesina. Lo stesso Meluzzi, anche nel corso dell’intervista in questione, fa riferimento ai sette Concili Ecumenici e alla tradizione ortodossa.

Perché dunque affermare che io avrei fatto di lui un vescovo “secondo la mia prospettiva”? Da uno che si professa vescovo ortodosso, e che fa apertamente riferimento all’Ortodossia calcedoniana ed efesina (quella dei sette Concili Ecumenici) io mi aspetto che rispetti quanto meno esteriormente ciò che la tradizione ortodossa prescrive per i vescovi, e lo stesso mi aspetto dalla sua Chiesa. Mi aspetto dunque che non sia sposato, poiché questa è la prassi attuale della Chiesa Ortodossa, e che nel suo clero non ci siano massoni in attività, cosa che purtroppo non è stata affatto chiarita. Voglio puntualizzare che prima del mio e di altri interventi in merito, Alessandro Meluzzi non si è mai premurato di dare chiarificazioni sulla sua appartenenza alla Chiesa Ortodossa. E a dire il vero non lo fa neppure in questa intervista.

Tanto dovevo, e se non ce ne sarà motivo non tornerò sull’argomento.

Non è mia intenzione esprimere giudizi sulle persone; una eventuale vera chiarificazione sulla “Chiesa Ortodossa Italiana” sarebbe benvenuta.

p Daniele

Alessandro Meluzzi e la Chiesa Ortodossa

Alcune considerazioni

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Si è diffusa in questi giorni la notizia che Alessandro Meluzzi, psichiatra e volto noto della televisione, si sia convertito all’Ortodossia divenendo “Primate” della cosiddetta “Chiesa ortodossa italiana”. Questa notizia è passata sotto silenzio – almeno così mi sembra – in tutti i maggiori siti e blog di informazione sulla Chiesa Ortodossa. Tale ostentata noncuranza ha forse lo scopo di non voler dare importanza a una notizia che importanza non ha, ma si scontra a mio avviso con un fattore pratico decisivo, ovvero la popolarità del personaggio in questione, che rischia di dare pubblicità negativa alla Chiesa. Se finora si sono potute bellamente ignorare certe realtà paraecclesiali come la suddetta “Chiesa ortodossa italiana” e le altre sue varianti e declinazioni (dalla “Chiesa Ortodossa d’Italia”, alla “Chiesa cattolica ortodossa d’Italia e Romania”), ebbene oggi questo non è più possibile. La notizia della conversione di Alessandro Meluzzi è infatti rimbalzata sulle principali riviste popolari di fascia bassa ( “Gente” e “TV Sorrisi e Canzoni”, per adesso), con l’ovvia conseguenza che qualche migliaio di persone che fino a ieri probabilmente ignoravano del tutto l’esistenza della Chiesa Ortodossa adesso ne sanno qualcosa. E fin qui nulla di male, anzi. Il problema è che le dichiarazioni di “sua beatitudine Alessandro I” rischiano adesso di confondere più che mai le idee sulla nostra Chiesa. Vediamo nel dettaglio quali informazioni sono passate presso il grande pubblico.

Intervistato da un giornalista di TV Sorrisi e Canzoni (1), Meluzzi ostenta umiltà. Alla provocazione «Meluzzi, qualcuno l’ha già chiamata perfino “Papa ortodosso”» risponde con una certa noncuranza: «Sciocchezze, esagerazioni dei media. Sarò semplicemente alla guida di un piccolo gruppo religioso. Ci sono la Chiesa ortodossa armena, russa, bulgara… Io sarò il reggente di quella italiana, qualche migliaio di persone. Chiamatemi fratello Alessandro». Qui non sappiamo, oggettivamente, se le parole del noto psichiatra siano state correttamente trascritte. Certo è che, da quel che si legge, si capisce che in Italia ci sarebbero soltanto qualche migliaio di ortodossi, tutti all’interno della “Chiesa ortodossa italiana”, dei quali egli sarebbe oggi il Primate. Diamo per scontato che il lettore medio della stampa popolare italiana non sappia pressoché nulla dei problemi della diaspora ortodossa in occidente. Il lettore medio di quest’articolo non sa che la Chiesa Ortodossa è dal punto di vista numerico la seconda Confessione religiosa in Italia, così come non sa che la “Chiesa ortodossa italiana” conta al massimo qualche centinaio di fedeli ed è tristemente nota solo per aver canonizzato Jacques de Molay, così come per i suoi legami con ridicoli ordini cavallereschi e ambienti di stampo massonico.
Continuando la lettura dell’intervista, giungiamo alle differenze tra Cattolicesimo romano e Ortodossia. «Le uniche differenze sostanziali, dice Meluzzi, con la Chiesa cattolica è [sic] che noi non abbiamo il dogma dell’infallibilità del Papa, possiamo sposarci e avere figli. Una scelta che auspico faccia anche la Chiesa cattolica: il celibato dei preti crea più problemi che altro». Niente dispute pneumautologiche, niente Primato “pietrino”, nient’altro. D’accordo che parlare del Filioque al lettore medio di TV Sorrisi e Canzoni non sia proprio un’ottima idea, ma anche giocare la carta della semplificazione assoluta non mi sembra affatto corretto. Meluzzi ha scelto, tra tutte le differenze tra cattolici e ortodossi, quelle che rendono la nostra Chiesa idealmente più “simpatica” ad occhi occidentali. E lo ha fatto tra l’altro tacendo un fatto fondamentale: è vero che i preti possono essere sposati, ma questo non vale affatto per i vescovi, che devono essere invece celibi. Meluzzi, ricordiamolo, è sposato e convive con sua moglie; la sua consacrazione a Vescovo Metropolita (e addirittura Primate) è da questo punto di vista del tutto anticanonica.

Vale la pena di riassumere, soprattutto per i lettori non ortodossi, ma anche per gli ortodossi più sprovveduti, alcuni punti fondamentali.

  1. La “Chiesa ortodossa italiana” è una realtà autoproclamata priva di qualsiasi appiglio canonico. I suoi chierici – a partire, a quanto pare, del suo Primate – non sanno neppure in cosa consista la fede ortodossa.
  2. In Italia (sebbene questo sia di per sé un fatto irregolare) ci sono diverse Chiese o “Giurisdizioni” ortodosse. Alessandro Meluzzi non ha ovviamente alcuna giurisdizione su di esse, ma soltanto sui cento o duecento fedeli della sua “Chiesa”.
  3. Non è assolutamente ammesso nella Chiesa Ortodossa che possa esistere un vescovo sposato, per questa ragione è chiaro che Alessandro Meluzzi non è nella condizione per essere consacrato vescovo, e la sua consacrazione è dunque gravemente anticanonica.
  4. Va da sé che nessun ortodosso può assolutamente partecipare ai sacramenti della “Chiesa ortodossa italiana”, che sono considerati del tutto invalidi.

Per farla breve, la “Chiesa  ortodossa italiana” molto semplicemente non è Chiesa e non è ortodossa.

p. Daniele Marletta


(1) Alessandro Meluzzi. Da criminologo della tv a prete della Chiesa Ortodossa Italiana. in TV Sorrisi e Canzoni, n. 51, 2015, pp 46-47

Dawkins, lo scienziato che gioca a essere Dio

E’ ormai cronaca dei giorni scorsi uno sfortunato intervento del professor Richard Dawkins su Twitter sul quale vorremmo dire poche parole. In esso il noto etologo e divulgatore risponde ai dubbi etici di una donna, incinta probabilmente di un figlio con sindrome di Down, sostenendo che sarebbe “immorale” portare avanti tale gravidanza: “Abortisci e provaci ancora. Sarebbe immorale metterlo al mondo avendo modo di scegliere”. L’intervento ha suscitato, c’era da aspettarselo, un vespaio di polemiche, tanto da indurre il suddetto professore al dietro-front e ad una generica richiesta di scuse, che ha però l’aspetto della classica “arrampicata sugli specchi”.[1]

"Abortisci e provaci di nuovo. Sarebbe immorale metterlo al mondo avendo modo di scegliere."

“Abortisci e provaci ancora. Sarebbe immorale metterlo al mondo avendo modo di scegliere.”

Richard Dawkins è, per chi fosse vissuto fuori dal nostro pianeta negli ultimi anni, un noto, notissimo maitre-à-pensér del più becero laicismo, autore tra l’altro di un fortunatissimo libro di propaganda ateistica [2] . In questo momento tutta la nostra sincera comprensione (e altrettanto sincera compassione) va ai tanti che qui in Italia e altrove hanno osannato il pensiero di quest’uomo di scienza e… di ideologia. E’ vero che, come dice il motto, “chi troppo in alto va cade sovente…” ma questa è una caduta di una certa sostanza, non solo di stile.
Ora, sia chiaro, il problema qui non è tanto il consiglio di abortire preso per sé. D’altra parte, che Dawkins fosse favorevole all’aborto lo sapevamo già (è suo un altro simpatico tweet, nel quale egli sostiene che vi è molta più umanità in un maiale adulto che in un feto umano, e tanto basti). Che fosse anche dell’idea che sia perfettamente inutile partorire un figlio Down quando si può sempre “abortire e provarci ancora”, quantomeno lo sospettavamo. Ciò che invece ci turba è quel suo spensierato “sarebbe immorale”. E’ buffo, a pensarci bene: un ateo militante, lottatore indefesso contro i moralismi e l’etica opprimente di tutte le religioni (soprattutto del Cristianesimo) viene ora a farci lezione di morale, ad insegnarci cosa è giusto e cosa no, rendendoci edotti sul bene e sul male. E questo dopo aver variamente sostenuto che alle chiese cristiane ciò non dovrebbe essere permesso. C’è anche da notare che Dawkins appartiene a quella eletta schiera che accusa tutte le chiese cristiane di non voler vedere il dramma interiore di una donna che decide di abortire. Viene il dubbio che non lo veda neppure lui.

Sarebbe ingiusto, però, sparare a zero su quella che è con ogni evidenza solo una esternazione infelice, senza provare a misurare quanto sia realmente profondo il male, quanto nella mentalità di tanti scienziati e scientisti sia oggi radicata una idea profondamente malata della natura stessa della scienza. Il binomio scienza-tecnica è ormai giunto ad un tal punto di assolutezza – o, se si preferisce, di perversione – da divenire fonte di morale. Poniamoci soltanto una semplice domanda: davvero il mondo si è così tanto allontanato da Dio? E’ dunque vero quel detto di Nietzsche: Dio è morto, e noi lo abbiamo ucciso. Lo abbiamo ucciso perché era necessario, per essere noi dio a noi stessi. Abba Justin (Popovic) l’aveva affermato perentoriamente e con parole profetiche parlando dell’uomo europeo (ma potremmo ovviamente estendere il discorso all’uomo contemporaneo tout court:

“L’uomo europeo ha fatto l’esperienza di una profonda vertigine. Ha posto il superuomo alla sommità della sua Torre di Babele, per essere corona del proprio edificio. Tuttavia il superuomo è impazzito appena giunto all’apice e si è gettato dalla Torre. Essa è caduta con lui, sbriciolandosi tra guerre e rivoluzioni. L’homo europaeicus è giunto al suicidio. Il suo Wille zur Macht (volontà di potenza) è divenuto Wille zur Nacht (volontà di notte). Una profonda notte è discesa sull’Europa. I suoi idoli
crollano e non è lontano il giorno in cui della cultura europea, di quella cultura che ha costruito città e distrutto anime, che deifica le creature e rigetta il Creatore, non rimarrà pietra su un pietra.” [3]

L’Occidente getta dunque la maschera? Certamente non è la prima volta né sarà l’ultima che un qualche uomo di scienza o di cultura si trovi a farsi interprete – quanto coscientemente non ci è dato saperlo  – di quello spirito luciferino che da secoli ormai ha invaso la civiltà occidentale, quello stesso spirito luciferino che sempre più e in modi sempre nuovi ci spinge a essere “come déi, conoscendo il bene ed il male”.

Giusi Spagnolo, prima donna al mondo con sindrome di Down

Giusi Spagnolo, prima donna laureata in Italia con sindrome di Down

Per chiudere con leggerezza, ricordiamo al professor Dawkins che essere Down non è poi così male: in Italia la ventiseienne Giusi Spagnolo, affetta dalla sindrome di Down, si è laureata in Beni demoetnoantropologici all’Università di Palermo.

p. Daniele Marletta


[1]Per chi abbia la pazienza di leggerla: https://richarddawkins.net/2014/08/abortion-down-syndrome-an-apology-for-letting-slip-the-dogs-of-twitterwar/

[2] Richard Dawkins, L’illusione di Dio, trad. it: Milano, Mondadori, 2008

[3]  Cfr. P . JUSTIN (POPOVIČ), Humanistic and theantropic culture in IDEM , The Orthodox Church and Ecumenism, Birmingham, Lazarica Press, 2000, pp. 108-109. Questo saggio di p. Justin fu pubblicato per la prima volta nella sua opera Svetosavlje kao filosofija zivota [San Sava e la filosofia della vita] nel 1953 ed in seguito ripreso e rielaborato.

“Noi andiamo verso la Pasqua…” in ricordo di p. Marco

Nella notte tra il 19 e il 20 Agosto, nei giorni della Festa della Santa Trasfigurazione del Signore,  l’archimandrita Marco (Davitti) si è addormentato nel Signore. Vogliamo ricordarlo con le sue stesse parole, quelle di una omelia pronunciata più di trent’anni fa nella sua parrocchia di Bologna, in occasione del Vespro del perdono.
Arrivederci, Padre Marco, noi andiamo verso la Pasqua, tu ci sei già.

p. Daniele

p. Marco Davitti

L’Archimandrita Marco (Davitti)

OMELIA PER IL VESPRO DEL PERDONO (17 / 2 / 1980)

La settimana scorsa abbiamo letto nel Vangelo circa la fine del mondo. Oggi compiamo un ciclo, oggi la Chiesa ricorda la creazione. Qualunque scienziato scopre le meraviglie del cosmo, ma per noi cristiani in questa perfezione è entrato un elemento perturbatore: il peccato.
Adamo piange davanti alle porte del paradiso, in una sera triste, piena di abbandono,una sera in cui Adamo si trova spogliato dei doni che Dio gli aveva dato. In questa notte non c’è che una sola speranza: Gesù Cristo. Adamo piangeva ma il Signore gli prometteva che, attraverso una donna, ci avrebbe dato la Salvezza.
Questa sera piangiamo sui nostri peccati ma sappiamo anche che ci sarà la luce di Pasqua che anticipa la Pasqua eterna, il Paradiso. Noi andiamo verso la Pasqua. Qui a Bologna la Chiesa è ormai un dato acquisito, ma la Chiesa prega e vive per quanto noi vi andiamo. La Chiesa non è un dono garantito. Tutte le Chiese dovrebbero avere sempre davanti la propria provvisorietà.
Le altre ideologie promettono fratellanze, ma non quella che viene dal calice e che sola può darci la vera fratellanza.
Quando ero in seminario, in America, il nostro rettore P. Alexander Schmemann usava dire che chi giunge a questa sera può pensarsi felice. Il Signore ci dà la possibilità di rifare il nostro battesimo nella notte di Pasqua. La Chiesa ci offre in questo periodo le sue liturgie con momenti di preghiera più intensa (i Keretismì, il Grande Canone di Andrea di Creta, la Domenica dell’Ortodossia, quella di S. Gregorio Palamas). Viviamo assieme questo periodo, preghiamo assieme, rinnoviamo il nostro entusiasmo, anche se siamo rimasti pochi.
Nella Chiesa Ortodossa c’è l’usanza che il sacerdote, in questa sera, chieda perdono ai fedeli delle sue colpe o mancanze. Io so di essere stato brontolone, trascurato, leggero, di non avere parlato quando era il momento o di avere parlato in un momento inopportuno.
Per tutto quello che non ho fatto o avrei potuto e dovuto fare vi chiedo perdono, fratelli e sorelle. Per tutte le mie colpe, volontarie ed involontarie, vi chiedo di perdonarmi.

Amin

Noi predichiamo Cristo Crocifisso

Omelia per la festa della Processione della Preziosa e Vivificante Croce
Letture:
Apostolos: 1Cor 1, 18-24
Evangelo
: Gv 19, 6-11; 13-20; 25-28; 30-35

Icona della Croce

«Cos’è diventata la croce per il cristiano di oggi?» Questa domanda mi torna in mente a tutte le feste della Croce. È la domanda che si poneva anni fa uno scrittore italiano, Ignazio Silone, in un suo romanzo, L’avventura di un povero cristiano. E questa domanda la mette in bocca a un uomo del tredicesimo secolo, quasi a significare che questo non è un problema recente, non è un problema della nostra era secolarizzata. È un problema che attraversa la storia della Chiesa. Cosa è diventata la croce per i cristiani? E cosa dovrebbe essere, invece?

«Noi predichiamo Cristo crocifisso» scriveva San Paolo ai Corinzi«scandalo per i giudei, e follia per i gentili» (1Cor 1, 23). Scandalo e follia, innanzitutto, perché la Croce ci mostra il volto scandaloso e folle di Dio.

Scandalo. «I giudei chiedono segni»: chiedono miracoli, azioni strabilianti. Israele era abituato a un Dio che interveniva continuamente nella sua storia, un Dio che lo guidava in guerra contro i nemici, un Dio che dimostrava continuamente la sua potenza. E qui, sul legno della Croce, vedono inchiodato un Dio debole, un Dio sconfitto, un Dio che muore.

Tornano in mente le parole che lo stesso San Paolo scriveva alla sua comunità prediletta, quella di Filippi:

«Abbiate in voi stessi lo stesso sentimento che è stato in Cristo Gesù, il quale, essendo in forma di Dio, non considerò rapina l’essere uguale a Dio, anzi svuotò se stesso, prendendo la forma di servo, divenendo simile agli uomini; e, trovato nell’esteriore simile ad un uomo, umiliò se stesso, facendosi ubbidiente fino alla morte, e alla morte di croce.» (Fil 2, 5-8)

Ecco lo scandalo: un Dio che si umilia, un Dio che si fa impotente, che si fa Egli stesso maledizione, secondo le parole della Legge: Maledetto colui che pende dal legno!

Follia. «I greci cercano sapienza»: cercano equilibrio, razionalità, bellezza. I greci erano un popolo spiritualista: disprezzavano il corpo, questa carne mortale con i suoi bisogni così bassi, così ripugnati. Dio non aveva niente a che fare con la carne, per un greco. Le divinità della mitologia greca si presentavano a volte in forma umana, ma era una forma solo apparente; si concedevano a volte piaceri molto umani e terreni, ma non si concedevano mai sofferenze umane e terrene. Per i greci un dio era sempre un dio. Dio non si mescola con la carne, Dio non soffre, Dio non muore. Questo Dio dei cristiani per un greco era qualcosa di imperfetto, di irrazionale, un follia. Il primo grande fallimento di San Paolo fu proprio quando, ad Atene, cercò di predicare ai greci mettendosi sul piano della ragione, delle argomentazioni.

Scandalo e follia, dunque. Lo scandalo del Dio onnipotente che si fa impotente e la follia del Dio perfetto che si fa imperfetto, dell’infinito che si fa finito.

Noi, però, quante volte ci ricordiamo che la Croce è questo? Anzi, per tornare alla domanda da cui siamo partiti, cosa è diventata la croce per noi cristiani di oggi, per noi cristiani di sempre? A volte dentro di noi c’è un ebreo che si scandalizza della Croce, che preferirebbe un Dio onnipotente che punisca il male qui, ora, subito. Qual’è la più classica obbiezione di un ateo alla nostra fede? Paradossalmente è una domanda che troviamo nella Bibbia, nel Libro di Giobbe: se Dio è buono, perché esiste il male? Perché esiste la sofferenza? Sarebbe più facile credere in Dio se Dio dimostrasse a tutti la sua onnipotenza spazzando via il male. Noi però crediamo in un Dio impotente che muore sulla Croce.

Altre volte dentro di noi c’è un greco che si vergogna della Croce, che preferirebbe credere in un Dio lontano, perfetto, eterno. In un Dio razionalmente plausibile. Non in questo Dio folle che si lascia follemente inchiodare sulla croce.

Eppure ci dice sempre San Paolo «per coloro che sono chiamati, sia giudei che greci, Cristo è potenza di Dio e sapienza di Dio» (1Cor 1, 24) Questo Dio impotente, questo Dio assurdo mostra proprio sulla Croce la sua potenza, la sua sapienza. La Croce è un grande paradosso: della follia fa sapienza, dello scandalo fa potenza, da maledizione si fa redenzione, da strumento di morte che era si fa per noi albero di vita. Amin.

 (Omelia del 1 / 14 Agosto 2013)

Domenica dei Santi Ortodossi d’Italia

Omelia per la seconda Domenica di Matteo
(Tutti i santi glorificati in Italia)

Letture:

Apostolos: Rm 2, 10-16
Evangelo: Mt 4, 18-23

ioannes2In Italia gli ortodossi sono una minoranza. Bisogna però anche dire che sono una minoranza significativa, attualmente sono la seconda confessione religiosa presente nel nostro Paese. Ciononostante molti italiani non hanno la minima idea di cosa sia la Chiesa Ortodossa.

Se dico che sono buddista tutti hanno una idea più o meno precisa di cosa sono.
Lo stesso se dico che sono un mussulmano.
Se invece dico “sono un cristiano ortodosso” in pochi capiscono. Ed è strano, perché in questa nostra terra la fede ortodossa ha avuto una storia importante. In questa seconda domenica dopo Pentecoste facciamo memoria dei santi locali, di tutti i santi cioè che sono stati glorificati da Dio in terra d’Italia.

San Pietro e San Paolo sono arrivati sin qui, e qui hanno trovato la loro fine terrena, qui hanno testimoniato la loro fede.
Abbiamo avuto martiri: Agata, Lucia, Parasceve, Anastasia, Alessandro, Agapito…
Abbiamo avuto monaci: Benedetto, i suoi discepoli Mauro e Placido, sua sorella Scolastica e tanti altri e tante altre.
Abbiamo avuto Padri: Ambrogio di Milano, Massimo di Torino, Eusebio di Vercelli, Cromazio di Aquileia… Per non parlare dei grandi Leone e Gregorio, Papi di Roma quando Roma era ancora ortodossa.
Potremmo scorrere una carta geografica di questo Paese e nominarne i santi da nord a sud. Scopriremmo che pochissime terre hanno dato alla Chiesa Ortodossa tanti santi quanti ne ha dati l’Italia. Solo la Grecia può dire di averne dati di più.

Non si tratta però di una festa “dei santi ortodossi italiani” (anche se spesso per semplificare diciamo così), ma di una festa dei “santi ortodossi glorificati in terra d’Italia”. Santi cioè che hanno testimoniato Dio in Italia. Anche se moltissimi sono effettivamente nati qui, altri sono venuti a volte da molto lontano. Pietro e Paolo non sono nati qui: il primo veniva dalla Galilea, l’altro dalla Cilicia. Colombano è venuto fin qui dall’Irlanda, altri sono giunti dalla Siria o dalla Grecia. E questo in modo del tutto analogo a tanti ortodossi che oggi vengono qui dalla Russia o dalla Romania.

I santi locali, come d’altronde tutti i santi, sono testimoni. Non sono però testimoni della loro terra: sono testimoni di Cristo nella terra in cui vivono: «Qui» ci ammonisce San Paolo «non c’è più Greco e Giudeo, circonciso e incirconciso, barbaro e Scita, servo e libero, ma Cristo è tutto e in tutti» (Col 3, 11). Parafrasando le parole dell’Apostolo oggi potremmo dire che qui non c’è italiano o russo, greco o romeno. Tutti hanno infatti lo stesso dovere di annunciare Cristo

Questa festa dei santi locali si pone quindi quasi a “corollario” della Festa di Tutti i Santi che si celebra la prima domenica dopo Pentecoste. Se è vero infatti che i santi non sono solo quelli i cui nomi vediamo nei calendari, bensì tutti coloro che credono in Cristo e si sforzano di aderire a lui nella fede della Chiesa, allora anche i santi d’Italia non sono soltanto quelli del calendario. I santi d’Italia sono coloro che qui in Italia, ora per nascita, ora per altri motivi, vivono la loro fede in Cristo e nella sua Sposa, la Chiesa. Se San Paolo fosse vivo e volesse scrivere una lettera alle comunità italiane, la comincerebbe indirizzandola “ai santi che sono in Italia” (come aveva fatto nella Lettera agli Efesini). Quindi quella di oggi è la nostra festa: “nostra” per chi in Italia è nato e per chi c’è venuto a vivere.

La Chiesa locale è una immagine viva della Chiesa universale. Allo stesso modo, i santi – quelli dentro il calendario e quelli fuori dal calendario – sono una immagine della santità della Chiesa. Possiamo giudicare lo stato di salute di una Chiesa locale (che può essere una Diocesi, una Metropolia o anche soltanto una Parrocchia) considerando se e come si rispecchia in essa la Chiesa universale.
Anche la Chiesa locale è chiamata ad essere una, poiché, come esiste un solo Dio, così deve esistere una sola Chiesa.
Anche la Chiesa locale è chiamata ad essere santa: anche noi, quindi, qui e ora, siamo chiamati a testimoniare Cristo.
Anche la Chiesa locale è chiamata ad essere veramente cattolica (sobornaja, soborniceasca), è chiamata cioè ad essere veramente “secondo il tutto”, a predicare soltanto “ciò che sempre, ciò che ovunque, ciò che da tutti è stato creduto”, secondo le parole di San Vincenzo di Lerins.
E, infine, anche la Chiesa locale è chiamata ad essere veramente apostolica, a confessare la fede degli apostoli e ad essere fondata in essa.

Quando si entra in una chiesa ortodossa, generalmente la prima cosa che si nota è l’icona del Santo titolare della chiesa, oppure l’icona del Santo del giorno o della festa in corso. Non si tratta dell’icona più bella, né della più preziosa o della più antica. Quella è semplicemente l’icona che ci fa da anticamera a tutte le altre: è come una porta. Anche quando si entra in chiesa si passa per una porta: è la porta di una chiesa qualsiasi; può essere la porta di una cattedrale o di una chiesina di campagna; può essere fatta di legno grezzo o finemente intarsiata. Se però noi avessimo occhi spirituali, passata quella porta noi non vedremmo né la Cattedrale né la chiesa di campagna. Vedremmo la Gerusalemme Celeste, perché questo è la Chiesa: la Chiesa è l’inizio del Regno di Dio. Così è per i santi che festeggiamo oggi: non sono più importanti, non sono migliori di altri, non importa che siano più antichi o più numerosi. Sono la nostra porta, qui e ora, alla Chiesa di Cristo.

(Omelia del 24 Giugno / 7 Luglio 2013)