Omelia per la quinta Domenica di Quaresima

Domenica di Santa Maria Egiziaca

Letture:
Apostolos: Eb 9, 11-14
Evangelo: Mc 10, 32b-45

«Il Figlio dell’uomo non è venuto per essere servito, ma per servire e per dare la sua vita come prezzo di riscatto per molti». In quest’ultimo versetto è riassunto il significato più profondo delle letture di questa quinta Domenica della Grande Quaresima: Dio si è fatto uomo e ha preso forma di servo divenendo prezzo di riscatto per acquistare per noi una redenzione eterna.

1.
Gesù e i suoi discepoli si stanno avvicinando a Gerusalemme per la solennità ebraica della Pasqua. I discepoli sono turbati, non riuscendo a capire a cosa esattamente stanno andando incontro. Gesù prede da parte i dodici e, per la terza volta nel corso della sua predicazione, annunzia la propria Passione: «Ecco, noi saliamo a Gerusalemme e il Figlio dell’uomo sarà dato nelle mani dei capi dei sacerdoti e degli scribi; ed essi lo condanneranno a morte e lo consegneranno nelle mani dei gentili,i quali lo scherniranno, lo flagelleranno, gli sputeranno addosso e l’uccideranno, ma il terzo giorno egli risusciterà». Il Figlio dell’uomo si prepara per essere consegnato alla morte; sale a Gerusalemme pur sapendo cosa a Gerusalemme lo attende.
I discepoli, però, restano incuranti di questa profezia. Due di loro, Giacomo e Giovanni, i figli di Zebedeo, si avvicinano a Gesù: «Maestro, dicono, noi vogliamo che tu faccia per noi ciò che ti chiederemo». E il Maestro, paziente come al solito, di rimando: «Che volete che io vi faccia?». Ed ecco la richiesta: «Concedici di sedere uno alla tua destra e l’altro alla tua sinistra nella tua gloria». Così, mentre il Maestro si prepara alla Passione, i discepoli pensano ai loro sogni di gloria. I discepoli non hanno ancora veramente capito che la gloria di Gesù non sarebbe stata una gloria secondo la mentalità del mondo, non avevano ancora capito che il Regno di Dio non è di questo mondo. Solo dopo aver veduto il Cristo Risorto i loro occhi si sarebbero aperti, solo allora avrebbero veramente capito. Questo Gesù lo sa bene e per questo risponde: «Voi non sapete quello che domandate. Potete voi bere il calice che io berrò ed essere battezzati del battesimo di cui io sono battezzato?» I discepoli continuano con testardaggine a non capire e rispondono che sì, anche loro possono bere del calice che il loro maestro beve ed essere battezzati nel battesimo nel quale il maestro è battezzato. A Gesù non rimane che prendere definitivamente atto dell’incomprensione dei discepoli: «Voi certo berrete il calice che io bevo e sarete battezzati del battesimo di cui io sono battezzato, ma quanto a sedere alla mia destra o alla mia sinistra, non sta a me darlo, ma è per coloro ai quali è stato preparato».
Gli altri dieci apostoli, che avevano sentito la discussione, «cominciarono a indignarsi» con Giacomo e Giovanni. Le discussioni su chi dovesse essere il più grande, o, come in questo caso, su chi dovesse sedere alla destra o alla sinistra del Signore, dovevano essere all’ordine del giorno tra i discepoli; negli Evangeli se ne parla più volte. Per questo le parole di Gesù riportate nell’Evangelo di oggi sono molto importanti, una sorta di testamento spirituale, un invito all’unità, all’umiltà e allo spirito di servizio: «Voi sapete che coloro che sono ritenuti i sovrani delle nazioni le signoreggiano, e i loro grandi esercitano dominio su di esse; ma tra voi non sarà così; anzi chiunque vorrà diventare grande tra voi, sarà vostro servo; e chiunque fra voi vorrà essere il primo, sarà schiavo di tutti. Poiché anche il Figlio dell’uomo non è venuto per essere servito, ma per servire…».
In poche parole Gesù capovolge l’ordine dei valori del mondo: è primo chi si fa ultimo, è grande chi serve e non chi si fa servire.

2.
«Il Figlio dell’uomo non è venuto per essere servito, ma per servire e per dare la sua vita come prezzo di riscatto per molti». Ecco il calice che Gesù deve bere, il battesimo nel quale deve essere battezzato. Cristo si prepara a dare la sua vita «come prezzo di riscatto per molti». Egli è il sacerdote che compie una volta per tutte il sacrificio di espiazione per l’Israele spirituale – la Chiesa – ed è egli stesso la vittima il cui sangue viene portato nel santuario del Tempio spirituale. Scrive infatti l’Apostolo nella Lettera agli Ebrei: «entrò una volta per sempre nel santuario, non con sangue di capri e di vitelli, ma col proprio sangue, avendo acquistato una redenzione eterna». Queste parole hanno bisogno di una ulteriore spiegazione. Gli ebrei avevano ( e hanno tuttora anche se la celebrano in modo diverso da come è prescritto nelle Scritture) una festa chiamata Giorno dell’Espiazione (Yom Kippur); era la più solenne delle feste ebraiche. Durante questa festa il Sommo Sacerdote entrava nel Santo dei Santi portando con sé il sangue di un capro e quello di un vitello, e con questi aspergeva prima il propiziatorio dell’Arca e poi i corni dell’altare. In questo modo il Sommo Sacerdote faceva l’espiazione per sé e per tutto Israele. Questa espiazione doveva essere però ripetuta ogni anno: l’espiazione operata da Cristo è compiuta invece una volta per tutte. È una redenzione eterna, acquistata non con il sangue di capri e vitelli, ma con il suo proprio sangue.
Cristo è divenuto Sommo Sacerdote secondo l’ordine di Melchisedek, così come è divenuto la somma vittima per l’espiazione, l’agnello portato al mattatoio di cui parla Isaia: «egli è stato trafitto per le nostre trasgressioni, schiacciato per le nostre iniquità; il castigo per cui abbiamo la pace è su di lui, e per le sue lividure noi siamo stati guariti»(Is 53,5).

3.
In questa stessa domenica in cui si ricorda la nostra redenzione ad opera di Gesù, la Chiesa ci mette davanti un modello di penitenza come Santa Maria Egiziaca. Ma che bisogno abbiamo di fare penitenza se sappiamo di essere stati già riscattati da Cristo? Dio non ha bisogno della nostra penitenza per salvarci, non ha bisogno dei nostri digiuni e delle nostre privazioni. Dio ci ha già redenti con il sangue del suo Cristo. La redenzione e il perdono del peccato ci vengono da Dio, sono doni di Dio, doni immeritati. Dio però non ci costringe ad accettare il suo dono. Dio vuole figli adulti che accettano liberamente di diventare suoi figli.
Ecco cos’è la penitenza: la penitenza è esercizio di libertà, la penitenza è il fiat del cristiano alla redenzione operata da Dio.

(Omelia dell’8 / 21 Aprile 2013)

San Pietro tra fede e speranza

Omelia per la nona Domenica di Matteo

Letture:
Apostolos: 1Cor 3, 9-17 (P9)
Evangelo: Mt 14, 22-34 (Gesù cammina sulle acque)

peter-on-water.jpg

“Uomo di poca fede”. È così che il Signore chiama San Pietro. E ci sembra quasi ingiusto: tra tutti i discepoli San Pietro è quello con la fede più pronta, assoluta. È lui a confessare per primo questa fede: “Tu sei il Cristo, il figlio del Dio vivente” (Mt 16, 16). C’è poi quella sua prima confessione di fede sul lago di Gennesaret: “Allontanati da me, Signore, poiché sono un uomo peccatore!” (Lc 5, 8). San Pietro è forse, tra i Dodici, il primo a credere veramente.

Seguendo i fatti narrati negli Evangeli, potremmo ricordare di San Pietro tutte
le tremende intenzioni
le rapinose esitazioni

(rubo queste parole a una nostra poetessa del secolo scorso).

Le tremende intenzioni: la confessione di fede in Cristo, poi quel suo dire “da chi andremo, Signore? Solo tu hai parole di vita eterna” (Gv 6, 68).

San Pietro, che all’Ultima Cena dice “se anche tutti fossero scandalizzati, io non mi scandalizzerò!”. San Pietro, che, nell’orto del Getsemani, trae la spada per difendere il Signore e ferisce un servo del sommo sacerdote.

Poi le rapinose esitazioni: San Pietro che fuori dal Sinedrio rinnega il suo Maestro, si scandalizza di lui. E non è colpa da poco, se il Signore stesso aveva detto:Chi si vergognerà di me e delle mie parole davanti a questa generazione adultera e peccatrice, anche il Figlio dell’uomo si vergognerà di lui, quando verrà nella gloria del Padre suo con gli angeli santi” (Mc 9, 38).

Qual’è in fondo la differenza fra il tradimento di Giuda e quello di Pietro? L’uno consegna il Figlio di Dio agli uomini che lo vogliono morto, l’altro, davanti a quegli stessi uomini, lo sconfessa: “non conosco quell’uomo” (Mt 26, 72). Traditori entrambi, dunque. La differenza è nel dopo: Giuda capisce il suo peccato e dispera, si uccide; Pietro si pente. Pietro è un uomo di speranza. Si innalza nelle intenzioni, cade nell’esitazione, ma sempre si rialza.

Anche nella lettura di oggi si possono vedere queste caratteristiche di San Pietro. Egli è con gli altri discepoli sulla barca sbattuta dalle onde, quando vede il Signore camminare sulle acque. Anche gli altri lo vedono, ma lui è il solo a dire “Signore, se sei tu, comanda che io venga a te sulle acque” (Mt 14, 28). San Pietro non è un contemplativo, come San Giovanni, è un uomo d’azione, che subito cerca di mettere in opera, in azione la sua fede. Quando però si trova sbattuto dal vento esita, ha paura. Eppure sapeva che c’era il vento, visto che sino a poco prima, sulla barca con i suoi compagni, era stato sbattuto dal vento e dalle onde. Lo sapeva, ma aveva agito lo stesso, d’impulso, con entusiasmo, con fede pronta in Dio. Nella difficoltà, l’entusiasmo cede il posto all’esitazione. Pietro affonda, ma non dispera. Non cerca ti tornare alla barca a nuoto, perché sa che con le sue sole forze non potrebbe salvarsi. Invoca la salvezza da Dio: “Signore, salvami!” (Mt 14, 30). La fede per un attimo viene quasi meno, ma la speranza perdura.

Ed eccoci di nuovo a quella “poca fede” di cui il Signore accusa – bonariamente – San Pietro. Perché l’apostolo ha esitato? Perché le “tremende intenzioni”, le “rapinose esitazioni” sono nel cuore di ogni uomo: nel nostro come nel suo.

È abbastanza frequente che, nella nostra vita spirituale, noi facciamo una esperienza simile a quella di San Pietro sul lago di Gennesaret. Cominciamo un’opera, abbiamo grandi propositi, conosciamo tutte le difficoltà, ma appena quelle difficoltà ci si presentano materialmente, esitiamo. Una cosa è la teoria, altra cosa la pratica, verrebbe da dire. Qui non è però una questione di teoria e pratica. Qui la questione è più importante: è la questione della nostra fede. Avere fede vuol dire innanzitutto affidare la propria vita e la propria opera a Dio. Sarà Dio a decidere se l’opera è cosa sua o cosa nostra. Se le nostre intenzioni sono secondo la volontà di Dio, si avvereranno, altrimenti sono destinate a fallire. Per questo quando troviamo delle difficoltà esitiamo: abbiamo paura che quelle difficoltà siano un segno del fatto che le nostre intenzioni non siano secondo Dio. Ed è giusto avere questo dubbio, perché questo è un rischio reale, un rischio che corriamo sempre nella vita. Finché l’uomo non si è staccato dal suo amore per il mondo i suoi desideri sono legati al mondo. Nel dubbio, però, nella paura, non si deve disperare, ma dire come San Pietro “Signore salvami”.

La salvezza di cui ci parlano le Scritture non è qualcosa che interessa soltanto l’anima, come a volte si crede. L’uomo non è la sua anima. L’uomo ha un’anima, un corpo, delle opere, dei sentimenti.

“Signore, salvami” significa innanzitutto “Signore, sottraimi a questo mondo dominato dalla morte, dal dolore, dal peccato”.

“Signore, salvami” vuol dire “Signore predi tutto ciò che è tuo in me”. Prendi la mia anima, il mio corpo, i miei sentimenti, le mie intenzioni – quelle che ho portato a termine e quelle che non ho compiuto. Prendi il bene che ho fatto e lascia il male. Prendi il grano e disperdi al vento la pula

“Signore, salvami” significa “Signore, la mia vita appartiene a te”.

 (Omelia del 29 Luglio / 5 Agosto 2012)

Tra Gadara e Gerusalemme

Omelia per la quinta Domenica di Matteo

Letture:
Apostolos: Rm 10, 1-10  (P5)
Evangelo: Mt 8, 28 – 9, 1 (gli indemoniati gadareni)

gadareni

Gesù e gli indemoniati gadareni, di Fotios Kontoglou

L’episodio degli indemoniati gadareni ci mette davanti a due personaggi fondamentali: il primo di questi personaggi è il Maligno (i demoni che inabitano gli indemoniati); il secondo è Cristo. Ci sono poi gli abitanti della regione di Gadara (o Gerasa, secondo una diversa lezione). Sullo sfondo del racconto ci siamo noi.

Quando il Signore giunge nel paese dei gadareni i due indemoniati gli vengono incontro uscendo dai sepolcri dove abitano. Il testo evangelico ce li descrive, più che come uomini, come degli animali selvaggi. Dotati di forza fuori dal comune, incutono terrore agli abitanti della regione.
Fin dalle prime righe delle Scritture possiamo vedere il Maligno all’opera proprio per questo tipo di risultato. Se rileggiamo il racconto della creazione dell’uomo nel secondo capitolo della Genesi, possiamo notare quanto sia diversa la creazione dell’uomo rispetto a quella di tutti gli altri esseri viventi. Le piante, i pesci, gli uccelli e tutti gli altri animali sono creati da Dio col solo nominarli: «produca la terra animali viventi secondo le loro specie» (Gn 1, 24). L’uomo al contrario è plasmato nel fango, e prende a vivere solo quando Dio gli insuffla il suo Spirito, la sua Ruah. L’uomo non è un essere vivente qualsiasi: l’uomo è la terra stessa (qui simboleggiata dal fango) a cui Dio dona una vita che è parte di sé. L’uomo è la terra partecipe delle energie di Dio.
Il Maligno però si oppone sin dal principio a questa condizione propria dell’uomo e – per mezzo dell’uomo – della terra. Il Maligno non vuole che Dio irradi le sue energie sul mondo per farlo vivere di Lui. Il Maligno vuole che l’uomo – e, per mezzo dell’uomo, la terra – sia sotto il dominio della morte. Questo significano gli indemoniati che vivono nei sepolcri. Gli indemoniati gadareni sono l’uomo così come il Maligno lo desidera: soggetto alla morte, al peccato, lontano dalla vita divina, dalle energie di Dio.

Gli indemoniati si avvicinano al Signore supplicandolo di non tormentarli e di non cacciarli nell’abisso che è preparato per loro. Anzi lo supplicano di permettere loro di entrare in un branco di maiali che pascolavano nelle vicinanze. Il Signore lo permette e i demoni, lasciati i due uomini, entrano nel brancodi maiali che poi si gettano nel Mare di Galilea morendo tra le onde. Gli indemoniati sono guariti, strappati ai sepolcri in cui vivevano, restituiti alla comunità umana, restituiti alla vita, restituiti a Dio Vivente che è Dio dei vivi, non dei morti (Mt 22, 32). Questa è infatti l’opera di Cristo: strappare l’uomo alla morte e al peccato per restituirlo a Dio. Il Cristo che guarisce gli indemoniati di Gadara è quello stesso Cristo che è risorto dai morti che «con la sua morte ha calpestato la morte, ai morti nei sepolcri donando la vita».

È qui possibile fare una prima riflessione. Sebbene in questo racconto Gesù parli pochissimo, parlano però i suoi atti. Ciò che il Signore compie non è un semplice esorcismo, non è una semplice guarigione. È come un insegnamento, un discorso che Dio fa all’uomo.
Tu, uomo, hai peccato. E il peccato è stato una tua decisione.
Ti sei sottomesso all’inganno del serpente. Anche questa è una tua decisione.
Ti sei sottomesso al dominio della morte: conseguenza delle tue decisioni.
Io però sono venuto a te per rimettere il tuo peccato.
Io sono venuto a te per strapparti all’inganno del serpente.
Io sono venuto a te per strapparti al dominio della morte.
Io, uomo, sono venuto a te per riconciliarti a me, per riconciliarti a Dio.
E da te non voglio nulla in cambio: voglio soltanto che tu mi dica che sì, vuoi essere salvato, vuoi essere riconciliato a Dio.
Io sto alla porta e busso: per questo, uomo, io sono venuto a te.

E qui compaiono i gadareni, che, informati della fine del branco di maiali e della guarigione degli indemoniati, vengono a chiedere a Gesù di andarsene dalla loro terra. Perché?
Forse un branco di maiali era un prezzo troppo alto per due uomini restituiti alla vita e a Dio. Forse hanno semplicemente paura della manifestazione della potenza di Dio in mezzo a loro, nella loro terra.
Veniali e paurosi: come ci sono vicini i gadareni! Veniali e paurosi come noi. Veniali come noi che tante volte ci domandiamo se davvero ci conviene (o quanto davvero ci conviene) essere cristiani. Paurosi come noi che non riusciamo mai a offrire tutti noi stessi a Dio. Rispettiamo i digiuni e i precetti come i farisei che pagavano la decima anche sulla menta e sul cumino, ma ci riserviamo sempre un angolo nascosto dentro di noi, una nostra piccola Gadara spirituale, nella quale Dio non ha motivo di essere; e così viviamo la nostra vita spirituale tenendo un piede a Gerusalemme e l’altro a Gadara. Anche noi abbiamo paura di Dio, e chi ha paura non ama.

Gadara è terra di pagani. Gli ebrei infatti non mangiano il maiale, e quindi neppure lo allevano. La nostra Gadara spirituale è quella parte di noi che è ancora pagana, perché non ha ancora trovato Dio. È quella parte di noi che non ha ancora capito che Dio è Amore, un Amore che sta alla porta e bussa, e attende solo di essere ricambiato. E l’amore non si può ricambiare né con doni, né con denaro, né con sacrifici. L’amore si ricambia soltanto con l’amore. Noi, invece, come i pagani gadareni, ci costruiamo idoli con le nostre mani e ne facciamo degli dei. Trasformiamo in divinità le nostre passioni, i nostri desideri, le nostre aspirazioni. E a loro riserviamo quello spazio che non vogliamo dare a Dio.
Alla fine, però, dovrà prevalere in noi Gadara o Gerusalemme, gli idoli o Dio. «Nessuno può servire a due padroni» (Mt 6, 24), dice il Signore. Bisogna scegliere:«Chi non è con me è contro di me, e chi non raccoglie con me disperde» (Mt 12, 30).
Dio sta alla porta e bussa: apriamogli. Apriamogli anche quell’angolo nascosto in fondo a noi che finora non gli abbiamo aperto, così da poter dire con l’Apostolo Paolo: Non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me (Gal 2, 20).

(Omelia del 25 Giugno / 8 Luglio 2012)