“Ritornate, figli traviati”

 

Omelia per la seconda domenica del Triodio

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Per questa seconda domenica del Triodion, la Chiesa prescrive la lettura di un’altra parabola, un’altra indicazione per la via del Regno, quella del figlio dissoluto (detta da alcuni  “Parabola del padre misericordioso”). Anche questa domenica, come le altre domeniche prequaresimali, ha un senso mistagogico, facendoci penetrare nel significato più profondo della Grande Quaresima.

Vediamo i personaggi di questa parabola: un padre e due figli. Del figlio minore, la parabola riferisce che un giorno egli si reca dal padre per chiedere di avere la sua parte di eredità. Pochi giorni dopo, il giovane parte e il padre non lo trattiene. Il padre ha rispetto della libertà del figlio, non vuole che il figlio rimanga con lui per un qualche obbligo. Il padre vuole che l’amore dei suoi figli per lui sia assolutamente libero, e pur sapendo che quel figlio se ne va lontano, pur temendo di non rivederlo più, lo lascia andare.

Il figlio si reca in un paese straniero, e qui spende tutte le sue sostanze, tutta l’eredità ricevuta dal padre, in divertimenti leggeri. Noi siamo quel che abbiamo ricevuto; noi non abbiamo meriti, e così anche questo giovane, che le sue ricchezze le ha ereditate. Non ha lavorato per esse, non ha faticato. E così è anche dei beni spirituali. Anzi, lo è ancora di più. Nessuno di noi ha qualche merito per i propri beni spirituali, tutti abbiamo ricevuto da Dio “e grazia su grazia”, come dice l’Evangelista Giovanni il Teologo. E come quel figlio dissoluto, anche noi sperperiamo le nostre ricchezze spirituali. Ci occupiamo del nostro benessere, ci preoccupiamo del nostro futuro, ci sforziamo di dare un senso, umanamente inteso, alla nostra vita. Dimentichiamo che soltanto una cosa è importante, dimentichiamo di mettere davanti a tutto il Regno di Dio e la sua giustizia.

Lontano dal padre, il giovane dissoluto cade presto in miseria. I suoi beni, usati in modo così malaccorto, si assottigliano e vengono meno. Il giovane diviene povero, come avviene a chiunque si allontani dalla fonte della propria ricchezza, sia essa materiale o spirituale. Aumentano le spese e cessano gli introiti. Il giovane comincia infine a darsi da fare. Trova un lavoro, il più umile, quello di guardiano di porci. Possiamo vedere in questo particolare un segno tangibile della lontananza da Dio, poiché il maiale era un animale impuro per gli ebrei che, per primi, ascoltarono questa parabola. Lontano dal padre, il giovane è caduto in basso. Ora sente davvero la sua lontananza, come sente i morsi della fame. Comincia a comprendere di essere caduto in un abisso, e da questo abisso comincia il suo ritorno: “Un abisso invoca un altro abisso” (Sal 41, 7) dice il salmista. L’abisso di sventura e peccato invoca l’abisso di misericordia. Il giovane vede finalmente la differenza tra il suo stato attuale e quello che ha abbandonato: lui, che è figlio, manca anche di quel pane di cui abbondano le mense di quelli che prima erano suoi servi. Bisogna avere fame e sete per capire cosa sia davvero mangiare e bere. Attraverso la fame e la sete il giovane ha capito di aver perduto sé stesso.

“Ritornate, figli traviati, ed io guarirò i vostri traviamenti” (Ger 3, 22) dice il Signore per tramite del Profeta Geremia. E il figlio traviato ritorna, per trovare la guarigione. Lo accoglie un padre che ne aveva a lungo atteso il ritorno. Il giovane viene rivestito della veste più bella, e si fa festa.

C’è sempre, però, per ognuno che ritorna qualcuno che crede di non essere mai partito, ma che col cuore è sempre stato lontano. Il fratello maggiore, veduta la festa, sentito che la festa è per il fratello, si sdegna. Perché? Perché il suo cuore è sempre stato lontano. Questo fratello minore era partito con la sua parte di eredità, aveva sperperato tutti i suoi averi in feste e prostitute, e appena ritornato viene accolto come se nulla fosse. Il padre gli ha fatto mettere addirittura “l’anello al dito”, quindi lo aveva reintegrato nella sua eredità, poiché l’anello era quello contenente il sigillo di famiglia. Il fratello maggiore si sente tradito: lui è sempre rimasto accanto al padre eppure non ha ricevuto nulla, neppure un capretto per fare festa insieme agli amici. Per il figlio traviato, invece, si uccide il vitello grasso. Possiamo leggere in questo fratello un po’ di invidia per chi si è alla fin fine “goduto la vita” ma si salva comunque, solo per essersi pentito. Tanto è sdegnato da non voler neppure entrare in casa e da costringere il padre a supplicarlo. “Io ti ho sempre servito” dice il figlio maggiore al padre. Non lo ha amato, lo ha servito. E’ rimasto lì come servo, non come figlio. Come figlio non è mai stato lì, il suo cuore è sempre stato lontano.

La parabola rimane sospesa; non sappiamo se il fratello maggiore si sia deciso ad entrare anche lui nella stanza della festa. Ci rimangono però le parole del padre: “questo tuo fratello era perduto ed è stato ritrovato, era morto ed è tornato in vita.”

La Resurrezione di Cristo è anche la nostra resurrezione alla vita, e il nostro cammino verso la Pasqua è la strada del nostro ritorno a Dio. Così si chiude questa mistagogia: noi tutti dobbiamo tornare a Dio, noi tutti siamo figli traviati in cerca di guarigione.

(22 Gennaio / 4 Febbraio 2018)

 

Dio resiste ai superbi

Omelia per la Domenica del Fariseo e del Pubblicano

Il fariseo e il pubblicano

Nel nome del Padre, del Figlio e del Santo Spirito.

Oggi comincia il tempo del Triodion, cioè il periodo che ci porta alla Pasqua. Queste sono le prime domeniche, quelle prequaresimali, che servono a introdurci ai temi della Quaresima e ad insegnarci il modo di affrontare questo cammino quaresimale di avvicinamento alla Pasqua. In questa prima Domenica del Triodion si legge la Parabola del fariseo e del pubblicano.

Noi oggi abbiamo davanti due personaggi, ma anche due stereotipi, e proprio a motivo di questa parabola. Questo perché da quando questa parabola è stata raccontata per la prima volta fino ad oggi sono passati circa duemila anni, e noi non abbiamo immediatamente presente il suono che essa poteva avere alle orecchie di suoi primi ascoltatori. Noi siamo abituati a pensare al fariseo superbo e al pubblicano umile, protagonisti di questa parabola. In italiano, addirittura, usiamo la parola “fariseo” per indicare una persona ipocrita, che è convinta di essere migliore degli altri per le sue opere. Questo viene appunto da questa parabola, oltre che dal fatto che il Signore si scagliava spesso contro i farisei, poiché molti di loro erano effettivamente così. Non tutti, però: San Paolo quasi si vantava di essere stato fariseo quanto all’osservanza della Legge. In generale, i farisei non erano tutti superbi, e i pubblicani non erano tutti umili. Questo stereotipo diffuso, ci rende quindi più difficile la comprensione di questa parabola e ce la fa spesso interpretare in modo assai scontato. Oggi, poi, va di moda una interpretazione quasi antireligiosa: quanti vanno in chiesa, pregano e fanno digiuni sono visti un po’ come il fariseo, e gli altri sarebbero come il pubblicano. Questa interpretazione però, non vede un punto fondamentale: il pubblicano della parabola è infatti nel Tempio a pregare come il fariseo. E vero che i pubblicani generalmente non frequentavano il Tempio e non avevano una vita religiosa, ma qui vediamo un pubblicano che si reca al Tempio proprio perché sente il bisogno di Dio e del Suo perdono. Ci siamo così abituati ad interpretare questa parabola dando un valore sbagliato al fariseo e al pubblicano.

Prima di fare la Comunione un cristiano ortodosso recita o sente recitare una preghiera che dice così: “Credo, Signore, e confesso che Tu sei veramente il Cristo, il Figlio del Dio Vivente, venuto nel mondo per salvare i peccatori, il primo dei quali sono io.” Questa preghiera la legge per primo il Sacerdote, prima di fare la comunione, dopodiché essa viene letta anche per i fedeli. Ognuno di noi, prima di fare la Comunione, confessa quindi di essere il primo dei peccatori. Chiaramente, non è possibile che ognuno di noi sia il primo dei peccatori in senso assoluto, perché c’è chi pecca di più (o con più convinzione) e chi di meno. Ognuno deve pensare però solo ai propri peccati e non a quelli altrui, questo significa essere il primo dei peccatori.

Detto questo, vediamo quali sono i problemi che vengono fuori da questa parabola.
Il fariseo prega dicendo: “Io ti ringrazio, Signore, perché non sono come gli altri uomini”, e così, subito, si paragona agli altri, ritenendosi superiore. Inoltre possiamo notare che questa preghiera è falsa. Comincia infatti ringraziando Dio di non essere come gli altri uomini e quindi riconosce di dovere questo a Dio, ma poi comincia a vantarsi e ad elencare le sue opere, il digiuno e il pagamento della decima (la decima parte dei guadagni, che gli ebrei pagavano al Tempio). Vediamo quindi dove sta qui la sua ipocrisia: perché vantarsi delle proprie opere se esse vengono da Dio? Evidentemente il suo ringraziamento a Dio non è affatto sincero; il fariseo pensa che le sue opere buone siano opera sua e non di Dio, e quindi che siano un suo merito. Inoltre il fariseo giudica il pubblicano, senza porsi un altro problema importante. Il pubblicano, infatti, è certamente diventato tale per qualche motivo (diventare pubblicani significava diventare collaborazionisti del dominatore romano e traditori del popolo di Israele), non lo sarebbe divenuto, probabilmente, se ne avesse avuto il modo. I farisei erano di solito persone di classe agiata: non facevano i pastori, o i contadini. Se il fariseo non ha mai rubato non è soltanto per suo merito, ma forse anche perché non si è mai trovato della tentazione di farlo. Se anche il pubblicano fosse cresciuto in una famiglia agiata forse non sarebbe divenuto pubblicano. Il fariseo, quindi, ha tutte le ragioni per ringraziare Dio nella preghiera, ma poi, giudicando il pubblicano, mostra come questa preghiera sia falsa.
Da questo punto di vista, il senso della parabola è che nessuno è giustificato dalle proprie opere. Il pubblicano infatti prega solo dicendo: “Signore sii clemente come me peccatore”. Come però ho detto prima, la parabola si presta ad essere interpretata male per via dei nostri stereotipi. E così esiste anche un modo “farisaico” di essere pubblicani, ed è una cosa oggi molto diffusa: ci sono oggi tanti “falsi pubblicani” che nel loro cuore pregano dicendo più o meno così: “Signore, io ti ringrazio di non essere un ipocrita come quei bigotti che fanno tutti i digiuni. Commetto ogni giorno tanti peccati, non digiuno e non pago la decima, però lo riconosco e confido nella tua misericordia.” Questo è chiaramente un modo “farisaico” di essere pubblicani. Come se io, dopo aver confessato nelle mie preghiere che il Signore è venuto al mondo “per salvare i peccatori, il primo dei quali sono io”, appena uscito di Chiesa, mi mettessi a giudicare gli altri.

Alla parabola, in realtà, interessa soprattutto la diversità dell’atteggiamento di questi due personaggi, non tanto in quello che fanno, quanto piuttosto in quello di cui parlano nella loro preghiera. Il primo, infatti, parla delle cose che ha fatto, l’altro di quelle che non ha fatto. Il fariseo si vanta davanti a Dio delle sue opere, mentre il pubblicano chiede perdono a Dio per non averle compiute.

Mentre una persona di mentalità farisaica fa la Quaresima pensando che questo lo renda giusto davanti a Dio e quindi fa il “conto” di tutto ciò che fa, una persona umile (che pure deve fare la Quaresima) fa invece il conto delle cose che non riesce a fare. E sono tante le cose che non riusciamo a fare.
Questa parabola ci mostra dunque quale debba essere il nostro primo atteggiamento di fronte al digiuno e di fronte a tutte le osservanze legate alla Grande Quaresima (la preghiera, l’elemosina, il “digiuno dalle passioni”). Il digiuno, come sappiamo o dovremmo sapere è un aiuto che Dio ci da, perché digiunando noi riusciamo a separarci anche dalle nostre passioni, riusciamo ad avere un modo migliore per avvicinarci a Dio. Il digiuno è uno strumento: non ci rende giusti davanti a Dio, ma è essenziale per avvicinarci al mistero della Pasqua. Questo vuol dire che non dobbiamo arrivare in fondo alla Quaresima chiedendoci se abbiamo rispettato il digiuno alla lettera tutte le volte che era possibile. Possiamo chiedercelo, certamente, ma non è essenziale. L’utilità del digiuno è nel fatto di mostrarci la nostra fragilità, facendoci diventare più consapevoli della nostra condizione di peccatori. Se giungo al termine della Quaresima e penso di aver digiunato bene, evidentemente non ho digiunato abbastanza. Il primo degli elementi fondamentali della Grande Quaresima è infatti l’umiltà nel dichiararsi peccatori, e a questo dobbiamo pensare con il nostro digiuno. Questo è il motivo per cui questa parabola è posta all’inizio di questa parte prequaresimale del Triodion: per mostrarci come la Quaresima non debba essere soltanto l’adempimento di una serie di precetti.
Se infatti affrontiamo questo periodo nell’Anno Liturgico con spirito farisaico, credendoci giustificati dall’osservanza dei precetti, noi inganniamo noi stessi.

Oggi si apre il cammino verso la Pasqua, nella quale celebreremo il mistero della nostra Salvezza e della nostra Resurrezione. In questo cammino dovremo riflettere su quanto siamo ancora distanti da Dio, e su quanta strada dobbiamo fare per giungere a Lui. In questa strada Dio stesso ci viene incontro, ma questo suo venirci incontro non ci può essere di utilità, se noi non andiamo incontro a lui nello spirito giusto. Dio non può salvarci, se non non lo vogliamo allo stesso modo in cui lo voleva il pubblicano della parabola.

“Dio resiste ai superbi, ma fa grazia agli umili” (1 Pt 5, 5) dice la Scrittura. A lui onore e gloria nei secoli dei secoli. Amen.

(23 Gennaio / 5 Febbraio 2017)

Sulla Comunione frequente

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Mi è capitato recentemente di rispondere in privato ad alcune domande sul tema della Comunione frequente. Si tratta, stranamente, di un argomento assai dibattuto. E dico “stranamente” perché l’opinione dei Padri in merito è molto chiara. Ho così pensato di rendere pubbliche le risposte.

Quanto spesso è bene accostarsi all’Eucaristia?

San Girolamo di Egina, un grande spirituale del secolo scorso, raccomandava la comunione frequente. Molti ebbero a chiedergli quanto spesso ci si debba comunicare, ed egli in genere rispondeva molto pragmaticamente: “Non hai bisogno di sapere quante volte devi mangiare: quando hai fame, mangi”, volendo significare che non esiste una regola precisa. Credo che a questa domanda non esista risposta migliore della sua.

Prendo spunto per trarne un piccolo corollario.
Se è vero – ed è certamente vero – che l’Eucaristia è il nostro cibo spirituale per eccellenza, è anche vero che per questo cibo spirituale vale la stessa regola che vale per quello corporale: né troppo, né troppo poco. Un insegnante non dovrebbe mangiare quanto un muratore (perché tradurrebbe l’eccesso di cibo in eccesso di peso) e allo stesso modo una persona che non curi molto la propria vita spirituale farà bene a non comunicarsi troppo spesso. C’è però differenza tra mangiare secondo il proprio bisogno e non mangiare affatto. Avere appetito è generalmente sintomo di buona salute: chi manca di “appetito spirituale” e non sente la necessità di comunicarsi con una certa frequenza non mostra grande salute spirituale. Chi ha l’abitudine di comunicarsi raramente dovrebbe quindi chiedersi: “Sono sicuro di star bene?”

Alcuni dicono che sia male comunicarsi frequentemente. Cosa ne pensa?

In generale, l’argomento più importante contro la pratica della comunione frequente è anche l’argomento più importante a suo favore. Molti sostengono infatti che comunicarsi frequentemente sia un errore, perché per partecipare della Eucaristia bisogna essere “degni” e “preparati”.
Questo non è in realtà un argomento serio per sconsigliare la comunione frequente; al contrario, questo è un motivo per comunicarsi il più spesso possibile.

Prima di tutto bisognerebbe dire che nessuno è degno – non nell’accezione che diamo di solito a questa parola – di partecipare al Sangue e al Corpo di Cristo. E se qualcuno pensa di esserne degno compie come minimo un peccato di superbia. Se aspettiamo di essere realmente degni, non ci comunicheremo mai.

In secondo luogo, se ci sentiamo indegni dell’Eucaristia per la maggior parte dell’anno, questo significa che la nostra vita sta percorrendo binari sbagliati. L’Eucaristia è infatti – secondo le parole di Sant’Ignazio Teoforo nella sua Lettera agli Efesini – il “farmaco di immortalità, antidoto per non morire ma vivere in Gesù Cristo per sempre”, ed esserne indegni implica l’essere indegni dell’immortalità e della salvezza.

Per le malattie del corpo ci affidiamo al medico: lui ci dirà se il nostro stile di vita è sano e in cosa eventualmente cambiarlo, quali cibi e quali attività evitare, e in più ci curerà con dei farmaci. Per la vita spirituale vale lo stesso: chi esercita la paternità spirituale su di noi ci indicherà la strada nella nostra vita spirituale. Sempre lui ci dirà quando accedere al “farmaco dell’immortalità” e quanto spesso.

Quali Padri della Chiesa sono favorevoli alla comunione frequente?

In una parola, tutti.

Qualcuno potrà citare qualche passo che sembra incitare al contrario, ma chiunque legga i Padri nel loro contesto storico sa benissimo che sono tutti dell’idea che un buon cristiano debba comunicarsi frequentemente. Ovviamente questo significa anche che un buon cristiano deve cercare di essere sempre preparato a ricevere i Santi Doni. Se non si sente preparato o degno abbastanza deve sforzarsi di diventarlo.

In cosa consiste la normale preparazione alla Comunione?

In linea generale, è necessario attenersi ad una serie di semplici regole.

1. Pregare ogni giorno.

2. Seguire il più possibile il digiuno, sia quello del mercoledì e del venerdì di ogni settimana che quello di tutti i giorni durante i periodi dell’anno che la Chiesa consacra al digiuno.

3. Sforzarsi di vivere una vita autenticamente cristiana.

4. Partecipare alle funzioni religiose del sabato sera (Vespro o Grande Veglia, secondo l’uso locale). Se questo non è possibile, leggere le preghiere di preparazione alle Comunione o altro, secondo l’istruzione del padre spirituale.

5. Essere digiuni almeno dalla mezzanotte. Alcuni praticano un digiuno di tre giorni prima della Comunione, ma quest’uso si riferisce soltanto a chi non si comunica frequentemente. Chi si comunica con una certa frequenza non è tenuto a fare altri digiuni

In quali casi è necessario invece evitare di comunicarsi?

È bene non comunicarsi quando non ci si è preparati degnamente, ma è anche bene che questo non accada troppo spesso. Chi pensa di essere un cristiano tanto indegno da non potersi comunicare neppure ogni due o tre domeniche deve innanzi tutto sforzarsi di migliorare.

Al di là di questo caso, vi sono casi che, salvo eccezioni, escludono almeno temporaneamente dalla Comunione. In linea generale, questi casi possono tutti essere condotti a una di queste situazioni:

1. Non può comunicarsi chi abbia commesso un peccato che implichi la scomunica (omicidio, adulterio o sacrilegio, per esempio).

2. Non può comunicarsi chi vive in una condizione contraria all’insegnamento della Chiesa, per esempio una persona che convive con un altra more uxorio, ma senza esservi sposata.

Vale però la pena di ripetere: l’essere in condizione di peccato non deve diventare un argomento contro il Sacramento dell’Eucaristia. Al contrario, il bisogno di accostarsi all’Eucaristia deve essere il motivo per abbandonare tale condizione.
Il sentirsi peccatori non deve in nessun caso diventare una comoda scusa per continuare ad esserlo.

Perché l’ecumenismo è una eresia?

FrancisBartholomew

Spesso mi si chiede come mai molti ortodossi siano tanto contrari al movimento ecumenico e guardino ad esso con tanta ostilità, vedendovi addirittura una eresia. I motivi sono in realtà molti e gravi, e meritano una trattazione approfondita. Mi limiterò qui a poche note fondamentali, partendo dall’esempio di una eventuale unificazione tra cattolici ed ortodossi. Non ho assolutamente la pretesa di riferire qui, in poche righe, tutte le possibili interpretazioni di un problema che è di per sé assai complesso. Mi limiterò ad enunciare quella che credo possa considerarsi la critica più ovvia, e per certi aspetti quasi banale, dell’ecumenismo, e questo perché tale critica proprio per la sua ovvietà viene spesso ignorata.

Voglio prescindere per un momento dalla questione delle differenze dogmatiche, questione a cui molti sono oggi (del tutto ingiustamente) allergici, e partire da un punto di vista semplicemente pratico. Una eventuale unione tra cattolici e ortodossi è possibile solo in tre prospettive, o se si vuole tre vie, che vengo ad esaminare.

La prima via è quella che potremmo definire come un ecumenismo “cattolico”. In tale prospettiva, il Papa di Roma conserva la sua posizione attuale, rimanendo vescovo “universale” (secondo la definizione romano cattolica) , con giurisdizione su tutta la Chiesa. Questa è, di fatto, ancora oggi la posizione del Concilio Vaticano II e di molti documenti ufficiali recenti della Sede romana, nei quali si ribadisce che non vi è vera comunione con la Chiesa se non nella comunione con il Papa. E’ chiaro che una eventualità del genere sancirebbe la fine dell’Ortodossia per come la conosciamo attualmente. Nella Chiesa Ortodossa non esiste alcun primato universale, e i vescovi hanno tutti pari dignità. Ognuno di essi ha giurisdizione diretta nel proprio territorio, e non oltre. Possiamo dire che una prospettiva del genere porterebbe gli ortodossi a smettere di essere ortodossi.

Va notato che tale posizione non è affatto nuova. E’ quella che fu portata avanti al Concilio di Lione (nella seconda metà del XIII secolo), poi a quello di Ferrara-Firenze (nel XV secolo), e che fu poi messa fattivamente in atto con l’Unione di Brest (1595-96) e in generale con quello che gli ortodossi chiamano “uniatismo”. Questi tentativi di unificazione (o per meglio dire, di assimilazione degli ortodossi a Roma) furono sempre assai modesti nei risultati e contribuirono semmai a confermare gli ortodossi in un profondo atteggiamento antilatino, soprattutto a causa di avvenimenti storici incresciosi, come lo sterminio perpetrato dal Patriarca Veccos ai danni di quei monaci athoniti che si erano ribellati all’unione di Lione. Tanto basti per dire che questa via non è assolutamente percorribile da parte degli ortodossi.

La seconda via è del tutto speculare alla precedente, e potremmo definirla come un ecumenismo “ortodosso”. Secondo questa prospettiva, il Papa di Roma dovrebbe rinunciare alla sua posizione attuale, divenendo un vescovo come gli altri (o, se si preferisce, un Patriarca come gli altri). Vale qui il discorso fatto poc’anzi per gli ortodossi: nella eventualità di un tale cambiamento all’interno del Cattolicesimo romano, gli ortodossi manterrebbero forse la loro identità, ma sarebbero i romano-cattolici a perderla. Padre Gheorgij Florovskij fu per un certo tempo un convinto sostenitore di questa via. Egli era radicalmente convinto che gli ortodossi, partecipando al movimento ecumenico, potessero in qualche modo “rendere testimonianza” alla verità. Giunse presto al disinganno, constatando come lo spirito di fondo dell’ecumenismo non permettesse una tale testimonianza.

“La nostra salvezza sta solo col Papa e nel Papa” diceva Giovanni Bosco. Ovviamente dai suoi tempi molta acqua è passata sotto i ponti, e oggi pochissimi userebbero una espressione di questo tipo. Questo però non significa affatto che per il Cattolicesimo la figura del Papa abbia perso importanza. Per molti versi, al contrario, il Papa riesce in popolarità a reggere nonostante la crisi profonda del Cattolicesimo. Saranno davvero disposti, i cattolici, ad abbandonare l’idea che la Chiesa sia retta visibilmente da un solo Vicario di Cristo? Essendo io ortodosso mi astengo dall’esprimermi per conto loro, sebbene tutto mi porti a congetturare una risposta negativa.

Queste due prime vie partono dal presupposto che la strada dell’unità sia innanzitutto una strada di assimilazione, questo perché ambedue partono da una percezione molto netta della realtà della Chiesa. Se infatti vi sono molte differenze dottrinali tra ortodossi e cattolici (anche se per semplicità mi sono limitato solo al problema della Giurisdizione universale del Papa), è ovvio che vi siano anche dei punti in comune.Tra questi punti in comune c’è la fede ferma nel fatto che la Chiesa sia già visibilmente unita ed unica. Sia gli ortodossi che i cattolici si riconoscono nella Chiesa ”Unica, Santa, Cattolica ed Apostolica”, secondo le parole del Simbolo niceno-costantinopolitano. La differenza (che non è di poco conto) consiste semmai nell’identificazione di quale sia la vera Chiesa, se sia cioè la Chiesa Ortodossa o il Cattolicesimo romano.

Veniamo dunque alla terza via: l’ecumenismo “protestante”, ovvero quella che viene generalmente detta “unità nella diversità”. Si tratta della prospettiva di fondo che anima il movimento ecumenico sin dalla sua origine. Varrà la pena di ricordare come l’ecumenismo sia nato nell’ambito del protestantesimo liberale e si sia nutrito di alcune sue idee di fondo. Va da sé che un protestante autentico, che prenda sul serio i punti fondamentali della Riforma, non potrà mai accettare un compromesso su tali punti. L’ecumenismo nasce infatti nel mondo protestante per il mondo protestante. Fuori dall’ottica della Riforma, esso scolorisce del tutto e perde di senso.
Nella nostra ipotesi iniziale, quella di una unificazione di cattolici ed ortodossi, l’unità nella diversità potrebbe avere solo due esiti antitetici. Un primo possibile esito sarebbe quello di una unità o comunione formale in cui si continua ad essere divisi su tutto: se mi si passa la metafora, sarebbe come passare dal divorzio alla separazione legale. Un altro possibile esito sarebbe quello della relativizzazione della fede: essere insieme credendo che ciò che ci divide sia soltanto relativo, e non assoluto. Questo significherebbe la perdita di identità sia per i romano-cattolici che per gli ortodossi.

Bisogna notare che questa prospettiva dell’unità nella diversità, a differenza dalle precedenti, parte dal presupposto che la Chiesa non sia visibilmente unita. L’unità della Chiesa è qui considerata o come unità invisibile da rendere visibile, o come unità solo potenziale da mettere, se così si può dire, in atto.
E’ assai curioso il fatto che sia i cattolici romani che gli ortodossi pur professando ognuno la propria forma di ecumenismo (le prime due vie di cui ho parlato) abbiano poi firmato documenti come la Charta Oecumenica [1] che sono chiare espressioni di questa terza via.

Entriamo qui nel problema delle differenze dogmatiche tra cristiani di diversa confessione. Dobbiamo a questo punto porci una serie di domande: quanto sono importanti tali differenze? Siamo davvero disposti a rinunciarvi? Un autore protestante, Alphonse Maillot, ebbe a scrivere riguardo ai rapporti  tra cattolici e protestanti, le righe che riporto:

«Bisogna chiedersi se è a causa di un’autentica convinzione cristiana che cattolici e protestanti oggi si tendano la mano o se non è, spesso, per tiepidezza ed indifferenza. Come due valorosi guerrieri stanchi di lottare senza conoscerne bene il motivo, acconsentono a stringersi la mano prima di coricarsi per dormire o per morire. Non credo che sia sempre un’autentica riconciliazione. Ci si può chiedere se la cessazione della reciproca accusa di eresia non provi semplicemente che gli uni e gli altri hanno rinunciato alle loro profonde convinzioni per trasformare in compromessi le loro approssimazioni. Il problema va posto.» [2]

Maillot tocca qui un problema profondo. Il movimento inter-cristiano, col suo strascico di dialoghi, concelebrazioni, dichiarazioni comuni, non è forse altro che il sintomo di un male che oggi indispone quasi tutte le Confessioni cristiane: la mancanza di fede. Con l’avanzata della secolarizzazione e il distacco sempre crescente tra le masse, solo nominalmente cristiane, e la Chiesa (qualunque cosa si intenda per “Chiesa”), è chiaro come tutte le Confessioni cristiane stiano attraversando un momento di profonda crisi spirituale, del tutto parallela alla crisi culturale che interessa in genere l’Occidente. Il minimalismo e il relativismo dogmatico sottesi all’ecumenismo sono, da questo punto di vista, la versione teologica del relativismo culturale che oggi tanto è in voga. Bisogna aggiungere che, come il relativismo culturale è il sintomo della crisi di identità dell’Occidente (Occidente che sembra avere ormai rinnegato le sue radici greco-latine, almeno quanto quelle cristiane), allo stesso modo l’ecumenismo non è che il sintomo di una perdita di fede. E’ chiaro che non si tratta dell’unico sintomo di questa malattia. E’ però uno dei sintomi più evidenti quest’oggi.

Concludendo, alla domanda se l’ecumenismo sia una eresia, credo di poter rispondere che esso è forse molto più che una semplice eresia.

Mi si obietterà forse che le “guerre sante” del passato non sono certamente state sintomo di salute spirituale, il che è per certi versi cosa vera. E’ anche cosa vera però che le “guerre” (sante o meno) tra i cristiani dei secoli passati hanno sempre avuto dei motivi. Il fatto di non farsi guerra non rende di per sé i cristiani di oggi migliori di quelli di ieri. Credo che sarebbe segno di grande superbia spirituale oggi, per un ortodosso, il ritenersi più cristiano di San Gregorio Palamas (che ebbe parole di fuoco contro i latini), più o meno come sarebbe segno di superbia, per un cattolico romano, il credersi più cristiano di quel Tommaso d’Aquino che fu autore di un trattato Contra errores graecorum.


[1] Consiglio delle Conferenze episcopali d’Europa – Conferenza delle Chiese europee, Charta Oecumenica. Un testo, un processo, un sogno delle Chiese in Europa, Torino, Claudiana – Elledici, 2007. Si vedano, oltre al testo della Charta, anche i commenti entusiastici di tanti teologi sia ortodossi che cattolici raccolti nel volume.

[2] Alphonse Maillot, Les Miracles de Jesus et nous, Tournon (F), Editions Réveil, 1977 («Cahiers de Réveil»); trad. it.: I miracoli di Gesù, Torino, Claudiana, 1990, p. 75


Per approfondire, si può consultare una serie di articoli e testi sull’ecumenismo da un punto di vista ortodosso

 

Meditazione sul Natale

 

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Cristo è nato!
Oggi nasce da una donna, nasce sotto la Legge, colui che fu Autore della Legge.

E noi dobbiamo chiederci cosa significa questa Nascita per la nostra vita, per la vita di ognuno di noi. Perché per ognuno di noi vale oggi quello che accadde a Israele duemila anni fa.

“Venne nel suo”, ci dice l’Evangelista Giovanni, “e i suoi non lo riconobbero”. Non si trovò posto per lui nell’albergo e dovette nascere in una grotta e giacere tra un bue e un asino, poiché, come dice il profeta Isaia “il bue conosce il proprietario e l’asino la greppia del padrone; ma Israele non conosce e il mio popolo non comprende” (Isaia 1, 3)

Dovremmo chiederci: lo riconosciamo noi? Gli diamo alloggio?

Se la Nascita di Cristo è solo una memoria liturgica, allora Cristo è nato invano. Come, se fosse solo una memoria liturgica la Pasqua, Cristo sarebbe risorto invano. In realtà noi sappiamo che, così come, risorgendo dai morti, Cristo ha distrutto la morte per noi tutti (e non soltanto per sé), allo stesso modo il Signore, nascendo nella carne e assumendola in sé, ha santificato la carne di noi tutti e non soltanto la sua.

Dio si è incarnato per avvicinarci a Lui, si è fatto uomo perché l’uomo potesse farsi Dio.

Ecco dunque che noi oggi non celebriamo soltanto la memoria liturgica della Nascita di Cristo: noi celebriamo la volontà che Dio ha reso manifesta di riportarci a sé, noi che da Lui ci eravamo allontanati. Ritorna quindi la domanda: lo accogliamo noi?

Se Cristo è venuto nella carne per ricondurci a Dio, accoglierlo significa innanzitutto comprendere quanto siamo distanti da Dio e quanto avevamo bisogno di Lui per essere a Lui ricondotti. E non parliamo solo della condizione generale dell’umanità, ma della condizione di ognuno di noi. Ognuno di noi, infatti, è singolarmente lontano da Dio e bisognoso di essere ricondotto a Lui. Se diciamo che Dio, incarnandosi, ha santificato la carne di noi tutti, non vogliamo dire che abbia santificato l’umanità in generale. A Dio non interessano i concetti filosofici: Egli ha voluto e cercato la santificazione della carne di ognuno di noi.

Il Natale così è uno di quei momenti dell’anno in cui noi possiamo fermarci per un attimo a riflettere per stabilire quanti sforzi abbiamo fatto per accogliere Cristo in noi, e quanti sforzi restano ancora da fare. E, se siamo sinceri con noi stessi, scopriremo che pochi sono gli sono gli sforzi fatti, e tanti gli sforzi ancora da fare.

Un antico inno cristiano ci parla di questo mistero della nascita di Cristo:

“Il suo amore per me ha umiliato la sua grandezza.
Si è fatto simile a me perché io lo riceva,
Si è fatto simile a me perché di lui io mi rivesta.
Non ho paura di vederlo, perché Egli è per me misericordia.
Egli ha preso la mia natura perché così io lo comprenda,
il mio volto perché da lui non mi distolga.”

Se noi vogliamo che il Natale non sia soltanto una memoria liturgica inutile, allora dobbiamo diventare noi stessi Betlemme, dobbiamo diventare noi stessi la Grotta. E’ dentro di noi che il Signore deve nascere. “Mille volte nasca Gesù a Betlemme” scrisse un poeta, “Se non nasce in me, nasce invano”.

A Lui onore e gloria, ora e sempre e nei secoli dei secoli.

Amen.

(Omelia del 25 Dicembre 2016 / 7 Gennaio 2017)

 

Se la tua religione

“Se la tua religione ti porta a odiare qualcuno, allora hai bisogno di una nuova religione.” Questa frase circola da un po’ nei social network a firma della “Chiesa Pastafariana”.

13923767_1338282196200772_6597681604676551045_o-1Per chi non lo sapesse i “pastafariani” sono degli atei anticlericali buontemponi, in fondo neppure del tutto antipatici. Ogni tanto organizzano un raduno e lì indossano un curioso copricapo costituito da uno… scolapasta. L’idea di fondo (a suo modo, bisognerà pur ammetterlo, geniale) del “Pastafarianesimo” è di “dimostrare” l’assurdità delle religioni dando vita a una pseudoreligione dai tratti assurdi. In pratica il messaggio è: “l’effetto che noi facciamo a te (credente) e lo stesso che tu fai a noi”. Troppo faticoso, d’altra parte, controbattere le idee altrui, meglio ridicolizzarle; è un po’ come quando, alla fine del XIX secolo, si ironizzava sulla teoria dell’evoluzione pubblicando caricature di Charles Darwin con sembianze scimmiesche. Insomma, è gente  dall’umorismo un po’ retrò.

Non mi interessa comunque parlare dei pastafariani, avevo solo bisogno di contestualizzare l’immagine di cui ho scritto sopra.

Mettiamola così: se non ci fosse stata la firma esplicita dei pastafariani, io avrei interpretato quella frase in chiave anti-islamica. So benissimo che gli islamici non sono tutti terroristi o jihadisti (anzi, nella stragrande maggioranza non lo sono affatto), ma il clima attuale mi avrebbe portato ad interpretare in questo modo. C’è però quella firma, e io so che i pastafariani (almeno quelli nostrani) non si preoccupano dell’Islam. Il loro vero nemico è il Cristianesimo, tutto il resto è contorno. In teoria non fanno distinzioni tra le varie credenze religiose, considerandole tutte false allo stesso modo, ma all’atto pratico la fede religiosa presa più di mira (anche per ovvi motivi culturali) è il Cristianesimo. E qui è il problema. Se il riferimento è al Cristianesimo, che c’entra l’odio? Il Cristianesimo porta ad odiare qualcuno?

Poiché tra le mie conoscenze c’è anche un pastafariano, ho avuto modo di discutere con lui della cosa, e così ho scoperto tantissime cose nuove, che vengo ad elencare.

Ho scoperto che i cristiani odiano gli omosessuali. Non lo sapevate? Ebbene, non lo sapevo neppure io. Pare che il problema sia soprattutto la contrarietà dei cristiani al matrimonio di persone dello stesso genere, oltre al fatto di considerare immorali gli atti sessuali di natura omosessuale. Ho cercato di spiegare al mio amico pastafariano che il fatto di stigmatizzare la condotta altrui non significa assolutamente odiare. Io credo che la sessualità esercitata tra persone dello stesso genere sia peccato, così come credo che sia peccato la gola, l’accidia, la superbia. Credo però di non aver mai odiato nessuno per il semplice motivo di commettere un qualche peccato (anche perché vale sempre il detto “Chi è senza peccato scagli la prima pietra” e io non sono senza peccato). Sembra però che il semplice fatto di essere contrari a certi diritti (veri o presunti che siano) sia segno inequivocabile di “omofobia”. Va da sé che viviamo in uno Stato laico, e  le persone omosessuali hanno tutto il diritto di lottare per quelli che ritengono loro diritti naturali. Quello che non possono pretendere è che noi siamo d’accordo. Anche dissentire è un diritto.

Ho scoperto che i cristiani odiano anche le donne. La cosa buffa è che i cristiani, per una buona metà, sono proprio donne. Se ci limitiamo a chi professa la fede cristiana con più convinzione, le donne sono addirittura in netta maggioranza. Ne viene fuori che le donne cristiane odiano le donne, e quelle particolarmente convinte le odiano in modo particolarmente feroce. Ho cercato di far notare l’incongruenza di questa cosa, ma senza risultati apprezzabili. L’amico pastafariano tira diritto nella sua convinzione: i cristiani relegano la donna a ruoli di second’ordine, tipo dare la vita a nuovi esseri umani ed educare le nuove generazioni, in più negando loro i più elementari diritti civili, come ad esempio l’interruzione di gravidanza o l’opportunità di dare “in affitto” il loro utero per dare modo a qualche riccone di permettersi di avere un figlio proprio, con il proprio DNA, senza doverlo prendere magari in qualche orfanotrofio, che non sai mai cosa trovi.

E fin qui le scoperte divertenti. Arriva purtroppo anche il momento della serietà, e così scopro, tra le altre cose, anche che  la Bibbia è piena di pagine atroci “come il Corano”. E come se non bastasse mi ha anche fatto una serie di esempi: versetti e interi episodi che dimostrano come il Cristianesimo non sia quella “Religione d’Amore” che pretende di essere. Quanto a sangue ed atrocità la Bibbia sarebbe “allo stesso livello del Corano”. Dubito che l’amico pastafariano abbia mai letto una singola riga della Bibbia o del Corano, e so anche che esiste una questione ermeneutica per il Corano così come esiste per la Bibbia. C’è però una differenza fondamentale tra la Bibbia e il Corano, ed è necessario comprenderla appieno prima di fare qualsiasi paragone.

Il Corano è un testo unitario, scritto in un periodo di tempo ristretto, per mano di una sola persona. Per un islamico tutto quello che c’è scritto nel Corano ha più o meno lo stesso valore.
La Bibbia è un insieme di libri, scritti in un periodo di almeno mille anni per mano di diversi autori. In particolare vi si distinguono due parti, una ebraica (il Vecchio Testamento) e una greca (il Nuovo Testamento). Per un cristiano ciò che è scritto nella Bibbia non ha sempre lo stesso valore. Per un cristiano tutto l’Antico Testamento va interpretato alla luce del Nuovo: “Voi avete udito che fu detto: ‘Occhio per occhio e dente per dente’. Ma io vi dico: non contrastate il malvagio; anzi, se uno ti percuote sulla guancia destra, porgigli anche l’altra”.
Già è abbastanza sciocco estrapolare dal contesto dei versetti del Corano per dimostrare chissà cosa, ma è ancor più sciocco cercare nell’Antico Testamento episodi o versetti cruenti o sanguinosi. Quella parte della Bibbia era transitoria, oggi non ha valore in sé, ma solo interpretata alla luce del messaggio cristiano. Quello che c’è scritto nel Corano per un islamico ha invece un valore abbastanza assoluto, fermo restando il fatto che anche nell’Islam c’è una cosa che si chiama “interpretazione della Scrittura”.
Che dire allora?
Spero che il mio amico non se ne abbia a male, ma, poiché l’Evangelo mi chiama ad amare anche i miei nemici, non sento il motivo di cambiare la mia religione. Resto in attesa che egli consideri con più attenzione ciò che predica la sua.

p. Daniele

“Voi siete la luce del mondo”

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Appunti per l’omelia della Domenica dei Padri dei primi sei Concili Ecumenici

Letture:
Apostolo: Tito 3, 8-15
Evangelo: Matteo 5, 14-19

“Voi siete la luce del mondo”, dice il Signore.
A che serve la luce? Semplice: a illuminare. Per questo la luce va messa in alto: più in alto è, più persone potranno vederla splendere. E più forte sarà questa luce, più sarà possibile vederla da lontano.

Si fa spesso un errore nell’interpretare questo detto evangelico. Noi siamo portati a intendere questa luce in senso morale. Questo non è sbagliato, di per sé; la fede cristiana ha anche le risposte agli interrogativi morali dell’uomo. E spesso l’interrogativo morale è nell’uomo quanto di più vicino possa esserci all’interrogativo spirituale. Così può accadere che qualcuno si avvicini alla fede grazie a questo suo aspetto più “umano”, che è appunto l’etica. Sbagliamo però se intendiamo questa luce solo in senso morale, sbagliamo, cioè, se riduciamo la nostra testimonianza di fede a una testimonianza di tipo morale.

“Splenda la vostra luce davanti agli uomini, affinché vedano le vostre opere buone e glorifichino il Padre vostro che è nei cieli”: nessuno potrà vedere le nostre opere buone, se non avrà visto anche la nostra luce, la luce della fede da cui quelle opere sono originate. E nessuno potrà vedere la luce della nostra fede se non nelle nostre opere. Noi spesso ci illudiamo, pensando che gli altri possano vedere le nostre opere e vedere poi la fede che c’è dietro. Questo però non accade quasi mai, per due motivi fondamentali.

Il primo motivo è che non sempre le nostre opere sono così lineari, così cristalline. “Non c’è uomo che viva e non pecchi, Tu solo infatti sei senza peccato” Spesso le nostre opere sono contraddittorie. A volte non sono affatto buone; diamo spesso un pessimo esempio di noi, e questo sì che agli occhi del mondo è visibile! Il mondo vede le nostre cattive opere molto più di quanto veda quelle buone. E non di rado gli altri vedendo le nostre cattive opere sono scandalizzati e rifiutano la nostra fede. Come sono i cristiani agli occhi del mondo? Litigiosi come gli altri, bugiardi come gli altri, ladri come gli altri, adulteri come gli altri. E quando non appaiono così, appaiono come farisei pronti al giudizio e alla condanna verso il prossimo.

Il secondo motivo è più interiore. Noi molto spesso trasformiamo la nostra fede in un sistema più o meno ordinato di osservanze: assistere alle Funzioni religiose in chiesa, fare i digiuni, astenersi da certe azioni (considerate cattive) e cercare invece di farne altre (considerate positive). Tutte queste osservanze sono utili, ci aiutano nella nostra vita spirituale. Noi però spesso le trasformiamo in un modo per confortarci. È come se dicessimo: io sono un buon cristiano, perché a casa ho il mio angolo delle icone con davanti un lumino, e recito le preghiere del mattino e della sera. Ovviamente è una buona cosa avere un angolo delle icone a casa, ed è una cosa buona recitare le preghiere del mattino e della sera. Noi però non saremo giudicati da Dio  in base a questo: saremo giudicati in base a cosa abbiamo fatto (o detto, o pensato) dal momento in cui finiamo le preghiere del mattino fino al momento in cui cominciamo le preghiere della sera. Se ne deve dedurre che l’angolo delle icone e le le preghiere non servano a nulla? Niente affatto. Ci servono per aiutarci nella nostra vita di fede. Preghiamo al mattino per aiutarci a cominciare una giornata da cristiani, e la sera per concluderla. Però dobbiamo avere chiaro in mente che la cosa importante è di sforzarci a vivere da cristiani tutta la nostra giornata, cioè tutta la nostra vita.

Cosa dobbiamo fare, allora, per essere la luce del mondo?
San Serafino di Sarov diceva: “acquisisci il Santo Spirito, e mille troveranno la salvezza intorno a te”. E spiegava come i digiuni, le veglie, le preghiere non siano il fine della vita cristiana. Il fine della vita cristiana è l’acquisizione dello Spirito, e queste opere ci servono come un mezzo per arrivare al fine. Questo significa che da un lato queste cose sono indispensabili, da un altro sono invece secondarie. Sono indispensabili per divenire ricettacoli di Grazia, e per questo motivo, noi tutti dovremmo pregare di più, digiunare di più, vegliare di più. Sono secondarie perché nessuno di noi si salverà soltanto perché ha osservato questi precetti, e nessuno di noi si perderà soltanto perché non li ha osservati

Se vogliamo essere luce per il mondo dobbiamo innanzitutto vivere in Cristo. Non dobbiamo essere noi a vivere, ma Cristo deve vivere in noi, come diceva San Paolo. Non è nostra la luce che deve splendere. Per quanti sforzi possiamo fare la nostra luce non illuminerà nessuno. Sforziamoci di essere luci riflesse dell’unica luce realmente in grado di risplendere nelle tenebre, la luce di Cristo.

(Omelia del 18 / 31 Luglio 2016)

Sulla festa dei Santi Pietro e Paolo

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Quella dei Santi Protocorifei degli Apostoli Pietro e Paolo è una delle feste più importanti del menologhion. Ce ne rendiamo conto se consideriamo innanzitutto che questa festa è preceduta da un  periodo di digiuno. Ci sono solo altre tre feste precedute da un digiuno simile: la Pasqua, la Natività e la Dormizione. Così, già da questo, possiamo vedere che questo giorno, pur non rientrando nel gruppo delle dodici Grandi Feste del Dodecaorto, ha una sua importanza. Infatti il “Digiuno degli Apostoli” è molto antico.

Pietro e Paolo furono diversi sotto molti aspetti.

Pietro, il cui nome originale era Simone, non aveva una grande istruzione, e faceva il pescatore. Fu forse discepolo di San Giovanni Battista insieme a suo fratello Andrea, e fu posto dal Signore a capo del collegio apostolico. Fu il Signore stesso a mutare il suo nome in Kefà, che in aramaico significa “pietra” da cui viene il nome greco con cui lo chiamiamo ancora oggi. Questo soprannome ha fatto nascere purtroppo una incomprensione. Gesù dice infatti: “Tu sei Pietro, e su questa pietra edificherò la mia Chiesa”. Alcuni hanno pensato che qui il Signore si riferisse proprio alla persona di Simon Pietro, ma la pietra di cui parla Gesù non è Pietro, ma è la confessione di fede di Pietro.
Della sua vita noi ricordiamo soprattutto alcuni episodi, che ce lo mostrano per quello che era: un uomo di grande passione, pronto alla chiamata di Dio, ma anche debole. Pietro è il primo a credere, il primo a vacillare nella fede, il primo a ritrovare la fede. Lui per primo confessa la fede in Cristo come Figlio di Dio, lui per primo tradisce Gesù nella notte della Passione, lui per primo entra nel sepolcro vuoto.

Al contrario di Pietro, Paolo aveva studiato a Tarso, sua città natale, ed era stato discepolo a Gerusalemme di Gamaliele, uno dei più importanti maestri ebrei del tempo.

Paolo, il cui primo nome era Saulo, come il primo re di Israele, non conobbe il Signore in vita, ma lo vide solo in visione. In principio era stato, da fervente fariseo, uno strenuo oppositore della Chiesa, e si convertì a Cristo dopo una visione avuta proprio mentre si recava, con lettere di accompagnamento dei sacerdoti di Gerusalemme, a fare arrestare i cristiani di Damasco. Anche Paolo è un uomo di grande passione: si occupa senza risparmio delle sue comunità, procurandosi da vivere con il mestiere di tessitore di tende, e rischiando più volte la vita a causa della sua predicazione.

Probabilmente, proprio il loro carattere passionale (in senso buono) accomuna questi due Apostoli: nella Chiesa non c’è posto per i tiepidi, non c’è posto per chi vuole servire a Dio e al mondo. Pietro e Paolo mettono in primo piano Cristo. Per loro non c’è niente di più importante: nessun precetto è più importante di Cristo, nessun “canone” è più importante di Cristo, nessun segno esteriore.

“Tu sei il Cristo, il figlio del Dio vivente”, dice Pietro. E Cristo è il fondamento della Chiesa, ci insegna Paolo. E “nessuno può porre un fondamento diverso”.
Noi siamo chiamati così a professare la fede di Pietro e Paolo: la fede nel Cristo, Figlio del Dio Vivente e fondamento su cui è edificata la Chiesa.

Finché la fede dei cristiani rimarrà fondata su questa roccia, le porte dell’Ade non prevarranno contro di essa, come non prevarranno sulla Chiesa, perché essa è fondata sul Cristo Risorto dai morti, il Dio Vivente. Se però la fede dei cristiani si spegne e diventa tiepida, se  sostituiamo Cristo con un altro fondamento, per quanto possa essere nobile, allora noi non siamo più la vera Chiesa. Allora si ripeterebbe in noi il peccato dei Progenitori, poiché ciò che non è fondato in Cristo è fondato sull’uomo, e ciò che è fondato sull’uomo è pula sparsa al vento.

(Omelia del 29 Giugno / 12 Luglio 2016)

I Cretesi son tutti bugiardi

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156 i vescovi presenti, contro 134 assenti. Sessant’anni di preparativi, di assemblee e riunioni “preconciliari” per arrivare a questo. Il “Grande e Santo Concilio Panortodosso”  tenutosi nell’isola di Creta ha offerto al mondo intero uno spettacolo semplicemente indecoroso. I numeri sono il segno tangibile del fallimento, al di là dei risultati stessi, al di là della bontà o meno dei documenti sinodali prodotti.

I Cretesi son tutti bugiardi, male bestie, ventri pigri” scriveva San Paolo a Tito, citando un noto detto di Epimenide. E continua: “per questo motivo riprendili severamente, affinché siano sani nella fede, senza attenersi a favole giudaiche né a comandamenti di uomini che rifiutano la verità. Certo, tutto è puro per i puri, ma niente è puro per i contaminati e gli increduli; anzi, sia la loro mente che la loro coscienza sono contaminate. Essi fanno professione di conoscere Dio, ma lo rinnegano con le opere, essendo abominevoli, disubbidienti e incapaci di ogni opera buona” (Tt 1, 12-16)


Queste parole mi hanno dato molto da pensare, anche se ovviamente i vescovi convenuti a Creta non sono cretesi in senso stretto. Il luogo mi sembra però altamente simbolico. Quale significato dare alla riunione tra i Primati delle Chiese Ortodosse ufficiali? Mi provo a stendere poche semplici note di bilancio. Questo è ovviamente soltanto il mio punto di vista; il punto di vista di un sacerdote ortodosso appartenente a una Chiesa che ha deciso di rifiutare qualsiasi tipo di comunione con le Chiese ortodosse ufficiali.

Credo che si debba partire dal protagonista assoluto. Il Patriarcato di Mosca ha dominato le scene astenendosi dal partecipare all’evento ed ergendosi così a paladino dell’Ortodossia contro il Patriarca Ecumenico Bartolomeo. Pochi hanno voluto rimarcare un inevitabile dato politico: all’interno dell’ortodossia mondiale, il Patriarcato di Mosca conta più o meno la metà dei fedeli. Un dato che non era possibile far valere a Creta, viste  le regole stringenti, sulle quali c’era comunque un largo consenso che non può non suscitare stupore. Essendo un “Concilio” di Primati e di delegazioni (e non di vescovi in quanto vescovi), a Creta Mosca avrebbe contato più o meno quanto Costantinopoli. Perfettamente naturale che infine si sia scelto di far valere comunque i numeri. Mosca ha comunque saputo mantenere un equilibrio da fare invidia al Cardinale Richelieu: si è tenuta lontana dalla riunione, riconoscendola però come una (ennesima) conferenza preconciliare. Insomma, Mosca paladina degli ortodossi, ma con giudizio.

Coniugando motivazioni serie e quisquilie, anche altre Chiese erano assenti a Creta.
La Chiesa di Antiochia ha presentato alcuni argomenti di una certa importanza: l’inaccettabilità del documento preconciliare sul Matrimonio in primis, oltre alla non accettazione da parte antiochena delle regole procedurali del “Concilio”. E meno male. Almeno qualcuno aveva notato che in quelle regole c’era qualcosa di storto. C’è da dire che il motivo fondamentale dell’assenza dei delegati antiocheni è stata molto più probabilmente la presenza di quelli gerosolimitani. C’è infatti in corso una querelle di un certo peso tra i Patriarcati di Gerusalemme e Antiochia riguardo alla giurisdizione del ricco Qatar. Vile pecunia, insomma.

La Chiesa di Bulgaria si è tirata indietro adducendo alcune ragioni effettivamente ragionevoli (quali ad esempio il disaccordo su alcuni dei testi in discussione), ma anche le eccessive spese da sostenere…

La Chiesa di Georgia è riuscita a mostrarsi più coerente. Pur di frenare l’emorragia in atto al suo interno, ovvero i molti chierici e fedeli che lasciano la Chiesa ufficiale per unirsi alla Chiesa dei Veri Cristiani ortodossi di Grecia, essa ha anche abbandonato (fin dal 1997) il movimento ecumenico; ciononostante continua a mantenersi in comunione con le altre Chiese ufficiali.

Nonostante le regole prefissate fossero sfavorevoli a Mosca, l’assenza dei russi (per tacer degli altri) si è fatta comunque sentire. Eppure non sono mancati i trionfalismi: pochi ma buoni, andiamo avanti così, a costo di essere ridicoli. Questo sebbene i vescovi presenti a Creta non rappresentassero che un terzo dell’Ortodossia mondiale.

Per quanto riguarda l’esegesi dei testi sinodali, non ho intenzione di sbilanciarmi troppo. I testi non sono troppo dissimili da quelli preparatori e ognuno può leggerli da sé e farsene una idea. Sono scritti in politichese stretto, ma questo non dovrebbe essere un gran problema. In generale c’è un punto che sembra risuonare in modo assolutamente chiaro: il “Grande e Santo Concilio” ritiene che il dialogo ecumenico sia irrinunciabile sotto tutti i punti di vista, al punto di reputare “degni di condanna” quanti vi si oppongono in nome della purezza della fede. Questo nonostante tutti i distinguo sulle parole (c’è stata una discreta discussione sul fatto di considerare o meno come vere chiese le confessioni di fede occidentali): in definitiva una vittoria del fronte costantinopolitano e in particolare del Metropolita di Pergamo Ioannis Zizioulas, anche se solo una vittoria in sordina.

E qui vengono le considerazioni.

In primo luogo, è stato coerente il comportamento degli assenti? No, non lo è stato nel modo più assoluto. Avrebbero potuto partecipare e far saltare tutto, ma si sono limitati a guardare da lontano per evitare di sporcarsi troppo le mani. Se avessero partecipato non avrebbero potuto fare a meno di riconfermare l’assenso già dato a suo tempo ai documenti sinodali. Ovviamente esiste il diritto universale di cambiare idea su qualcosa. Personalmente però non ho ben chiaro se abbiano davvero cambiato idea.

In secondo luogo, perché i Patriarcati di Mosca, Antiochia e Bulgaria che, tutti, hanno espresso perplessità sul documento “Relazioni della Chiesa Ortodossa con il resto del mondo cristiano”  non abbandonano il movimento ecumenico? Vale quanto già detto: quel documento, a quanto pare, era stato firmato all’unanimità dai delegati della “Quinta Conferenza Panortodossa preconciliare”, tenuta a Chambesy nell’Ottobre del 2015. Quindi la domanda è: vogliamo giocare a fare i duri e puri dell’Ortodossia tenendo però anche un piede nel movimento ecumenico?

“Sia il vostro parlare: si,si; no, no” disse il Signore (Mt 5, 37). Anche sul piano della sincerità evangelica Creta è stata un fallimento. Abbiamo letto molti giri di parole e molta retorica da parte di chi vi si è recato. Abbiamo notato una non meno ampollosa retorica nei silenzi di chi non lo ha fatto. I cretesi son tutti bugiardi, ma anche gli altri non scherzano.

p. Daniele Marletta

Alcune utili letture (profane) per la Grande Quaresima

Libri-antichi
Quello che scriverò ad alcuni potrà sembrare provocatorio, ma non è assolutamente questa la mia intenzione. È chiaro che durante la Grande Quaresima (e durante i digiuni in genere) sarebbe meglio bandire ogni lettura profana e dedicarsi interamente alla lettura delle Scritture e dei Padri della Chiesa. Questo significherebbe anche, ovviamente, rinunciare alla televisione e all’ascolto di qualsiasi genere di musica che non sia strettamente liturgica. Sono assolutamente convinto che una disciplina del genere sia l’ideale per un monaco, ma non credo che un laico, che vive ben più del monaco i problemi del mondo, possa sempre permettersi una tale condotta di vita. Temo che in alcuni casi essa possa addirittura essere dannosa: “zelo non secondo conoscenza” direbbe forse San Paolo. D’altra parte esistono molte opere letterarie che, pur essendo a tutti gli effetti “profane”, riescono ad essere portatrici di idee cristiane. Sono opere che parlano di storie del tutto umane, con protagonisti pieni di umanissimi difetti: storie di amore e di odio, di guerra, ma anche di pentimento, di redenzione. Molte di queste opere si prestano benissimo a sostituire altri svaghi nei periodi di digiuno. Non che nello svago in sé ci sia qualcosa di naturalmente sbagliato, questo è chiaro, ma se è possibile indirizzare a Dio anche lo svago, questo può diventare un momento di crescita spirituale.

Ecco dunque alcuni libri di cui raccomando la lettura.

I promessi sposi di Alessandro Manzoni
Gli italiani imparano ad odiare questo libro sui banchi di scuola, e questa è una delle supreme ingiustizie del nostro sistema scolastico. Sì, perché questo è davvero uno dei più bei romanzi di tutti i tempi, che dietro quella che è apparentemente soltanto una storia d’amore contrastato, cela tutta una serie di riflessioni profondamente cristiane. Soprattutto è un libro che parla del pentimento: il pentimento di Renzo di fronte alla propria incapacità di perdonare, quello di Ludovico, che decide di incamminarsi nella vita consacrata, quello dell’Innominato, uomo dai molti crimini che trova alla fine Dio.

David Copperfield di Charles Dickens
Questo libro è ciò che in termini tecnici si definisce in genere come un “romanzo di formazione”. Il protagonista (l’alter ego di Dickens) racconta in prima persona le principali tappe della sua vita, dalla perdita del padre, prima ancora di nascere, a quella della madre, passando per le mille avventure che lo faranno crescere umanamente e spiritualmente. Riferirò un piccolo aneddoto su questo libro. Un giovane che si era recato sul Monte Athos per farsi monaco, aveva chiesto all’Abate una lettura spirituale. L’Abate, uomo dalla vista spirituale acuta, gli consegnò una copia di questo libro e, alle proteste del giovane (che si aspettava un libro veramente spirituale e non un romanzo sentimentale vittoriano), affermò: “Se prima non riesci a sviluppare sentimenti normali, umani, cristiani, come David, qualsiasi lettura spirituale ortodossa sarà per te di scarso beneficio…”

Dov’è morte la tua vittoria? di Henry Daniel-Rops
Un bellissino romanzo a tinte forti, una storia di morte e resurrezione, dal titolo decisamente “paolino” (una citazione dalla prima Epistola ai Corinzi). Il romanzo racconta la storia di Laura, donna dal cuore inquieto che si lascia sprofondare, come ahimè accade in molte anime sensibili, nelle più basse passioni umane. Per poi trovare la luce di Dio. Viene in mente, leggendo questo libro, un passo famoso dalla Scala di San Giovanni Climaco: “Del resto io vidi persone follemente travolte da impuri amori trarre da essi motivo di penitenza, passare cioè dall’esperienza erotica a quell’amore del Signore che trascende ogni timore, da quello spronate ad un insaziabile ardore di divina carità. Per questo il Signore disse alla peccatrice tornata a saggezza non ch’ella aveva molto temuto, ma che aveva molto amato, e perciò era riuscita a scacciare un amore con un altro amore” [Scala, V, 54]

Delitto e castigo di Fedor Dostoevskij
Mi sembra quasi di fare un torto al grande scrittore russo se cito soltanto uno dei suoi romanzi. In realtà avrei potuto citare qui moltissimi dei suoi libri. Mi limito a questo, lasciandovi scoprire da soli gli altri, perché è anche questo un romanzo di morte e rinascita, la storia di un uomo che cade e si redime, rinascendo quasi come Lazzaro nel racconto dell’Evangelista Giovanni (un racconto che si ritrova non a caso citato in una delle più grandi pagine di questo libro).

Chiaramente ci sono moltissimi altri libri che varrebbe la pena di leggere durante la Grande Quaresima, e in realtà anche nel resto dell’anno. La televisione e Internet hanno ridotto molto il tempo dedicato alla lettura. Quale scusa migliore per lasciare finalmente una cattiva abitudine in favore di una buona? Quindi, che dire? Buona lettura!

p. Daniele