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Omelie audio

Da oggi, quando possibile, saranno disponibili su questo sito le mie omelie in formato mp3. Per l’occasione, recupererò anche vecchie registrazioni.
Con l’occasione, voglio ricordare che in genere predico “a braccio”, senza scrivere il testo dell’omelia. Mi si perdonerà quindi qualche piccola svista ogni tanto…

Le omelie sono nella pagina “Omelie audio“, raggiungibile dal menù principale del blog.

p. Daniele

Lavori in corso!

Lo so, non è il migliore dei titoli possibili.
Anche l’immagine lascia a desiderare.

 

Il fatto è che volevo solo far sapere ai miei ventiquattro lettori che il blog Qoelet (http://qoelet.wordpress.com ) da ora trasferisce qui i suoi contenuti, che non è morto e che presto potrete rivederlo in attività.

 

A presto!

 

p. Daniele

Nel segno della falsificazione storica

Catherine NixeyNel nome della croce. La distruzione del mondo classico, Bollati Boringhieri 2018

Un libro dal titolo commercialmente accattivante, ma che è nei contenuti addirittura peggiore delle aspettative. Nel risvolto di copertina si dice che chi lo ha scritto avrebbe studiato “Storia e Letteratura Classica a Cambridge”, e questo ci fa rivalutare i tanto disprezzati atenei italiani. Il libro, caso raro, sa essere insieme pedante e pedestre: cita un dovizioso numero di fonti, mescolandole però tra loro, e soprattutto confondendo spesso (volutamente?) le fonti tardoantiche con le tardomedievali, in un potpourri di frasi fatte, luoghi comuni, veri e propri travisamenti. Un profluvio di citazioni decontestualizzate e di improbabili aneddoti fatti passare per verità storiche inoppugnabili. Continua a leggere

Dove va Costantinopoli. Due considerazioni

 

Negli ultimi giorni, due notizie (distinte tra loro ma pur collegate in un certo senso, come vedremo) hanno portato alla ribalta la situazione del Patriarcato di Costantinopoli.

La prima riguarda un suo problema interno: a quanto pare, da ora in poi il Patriarcato ecumenico approverà regolarmente le seconde nozze dei preti lasciati dalle mogli o vedovi. La seconda riguarda i suoi rapporti con il Patriarcato di Mosca: il patriarca Bartolomeo sarebbe sul punto di riconoscere l’autocefalia dell’autoproclamato “Patriarcato di Kiev”, cosa che potrebbe avere enormi conseguenze sullo scenario ortodosso mondiale. Continua a leggere

Sulla Comunione frequente

communion

Mi è capitato recentemente di rispondere in privato ad alcune domande sul tema della Comunione frequente. Si tratta, stranamente, di un argomento assai dibattuto. E dico “stranamente” perché l’opinione dei Padri in merito è molto chiara. Ho così pensato di rendere pubbliche le risposte.

Quanto spesso è bene accostarsi all’Eucaristia?

San Girolamo di Egina, un grande spirituale del secolo scorso, raccomandava la comunione frequente. Molti ebbero a chiedergli quanto spesso ci si debba comunicare, ed egli in genere rispondeva molto pragmaticamente: “Non hai bisogno di sapere quante volte devi mangiare: quando hai fame, mangi”, volendo significare che non esiste una regola precisa. Credo che a questa domanda non esista risposta migliore della sua.

Prendo spunto per trarne un piccolo corollario.
Se è vero – ed è certamente vero – che l’Eucaristia è il nostro cibo spirituale per eccellenza, è anche vero che per questo cibo spirituale vale la stessa regola che vale per quello corporale: né troppo, né troppo poco. Un insegnante non dovrebbe mangiare quanto un muratore (perché tradurrebbe l’eccesso di cibo in eccesso di peso) e allo stesso modo una persona che non curi molto la propria vita spirituale farà bene a non comunicarsi troppo spesso. C’è però differenza tra mangiare secondo il proprio bisogno e non mangiare affatto. Avere appetito è generalmente sintomo di buona salute: chi manca di “appetito spirituale” e non sente la necessità di comunicarsi con una certa frequenza non mostra grande salute spirituale. Chi ha l’abitudine di comunicarsi raramente dovrebbe quindi chiedersi: “Sono sicuro di star bene?”

Alcuni dicono che sia male comunicarsi frequentemente. Cosa ne pensa?

In generale, l’argomento più importante contro la pratica della comunione frequente è anche l’argomento più importante a suo favore. Molti sostengono infatti che comunicarsi frequentemente sia un errore, perché per partecipare della Eucaristia bisogna essere “degni” e “preparati”.
Questo non è in realtà un argomento serio per sconsigliare la comunione frequente; al contrario, questo è un motivo per comunicarsi il più spesso possibile.

Prima di tutto bisognerebbe dire che nessuno è degno – non nell’accezione che diamo di solito a questa parola – di partecipare al Sangue e al Corpo di Cristo. E se qualcuno pensa di esserne degno compie come minimo un peccato di superbia. Se aspettiamo di essere realmente degni, non ci comunicheremo mai.

In secondo luogo, se ci sentiamo indegni dell’Eucaristia per la maggior parte dell’anno, questo significa che la nostra vita sta percorrendo binari sbagliati. L’Eucaristia è infatti – secondo le parole di Sant’Ignazio Teoforo nella sua Lettera agli Efesini – il “farmaco di immortalità, antidoto per non morire ma vivere in Gesù Cristo per sempre”, ed esserne indegni implica l’essere indegni dell’immortalità e della salvezza.

Per le malattie del corpo ci affidiamo al medico: lui ci dirà se il nostro stile di vita è sano e in cosa eventualmente cambiarlo, quali cibi e quali attività evitare, e in più ci curerà con dei farmaci. Per la vita spirituale vale lo stesso: chi esercita la paternità spirituale su di noi ci indicherà la strada nella nostra vita spirituale. Sempre lui ci dirà quando accedere al “farmaco dell’immortalità” e quanto spesso.

Quali Padri della Chiesa sono favorevoli alla comunione frequente?

In una parola, tutti.

Qualcuno potrà citare qualche passo che sembra incitare al contrario, ma chiunque legga i Padri nel loro contesto storico sa benissimo che sono tutti dell’idea che un buon cristiano debba comunicarsi frequentemente. Ovviamente questo significa anche che un buon cristiano deve cercare di essere sempre preparato a ricevere i Santi Doni. Se non si sente preparato o degno abbastanza deve sforzarsi di diventarlo.

In cosa consiste la normale preparazione alla Comunione?

In linea generale, è necessario attenersi ad una serie di semplici regole.

1. Pregare ogni giorno.

2. Seguire il più possibile il digiuno, sia quello del mercoledì e del venerdì di ogni settimana che quello di tutti i giorni durante i periodi dell’anno che la Chiesa consacra al digiuno.

3. Sforzarsi di vivere una vita autenticamente cristiana.

4. Partecipare alle funzioni religiose del sabato sera (Vespro o Grande Veglia, secondo l’uso locale). Se questo non è possibile, leggere le preghiere di preparazione alle Comunione o altro, secondo l’istruzione del padre spirituale.

5. Essere digiuni almeno dalla mezzanotte. Alcuni praticano un digiuno di tre giorni prima della Comunione, ma quest’uso si riferisce soltanto a chi non si comunica frequentemente. Chi si comunica con una certa frequenza non è tenuto a fare altri digiuni

In quali casi è necessario invece evitare di comunicarsi?

È bene non comunicarsi quando non ci si è preparati degnamente, ma è anche bene che questo non accada troppo spesso. Chi pensa di essere un cristiano tanto indegno da non potersi comunicare neppure ogni due o tre domeniche deve innanzi tutto sforzarsi di migliorare.

Al di là di questo caso, vi sono casi che, salvo eccezioni, escludono almeno temporaneamente dalla Comunione. In linea generale, questi casi possono tutti essere condotti a una di queste situazioni:

1. Non può comunicarsi chi abbia commesso un peccato che implichi la scomunica (omicidio, adulterio o sacrilegio, per esempio).

2. Non può comunicarsi chi vive in una condizione contraria all’insegnamento della Chiesa, per esempio una persona che convive con un altra more uxorio, ma senza esservi sposata.

Vale però la pena di ripetere: l’essere in condizione di peccato non deve diventare un argomento contro il Sacramento dell’Eucaristia. Al contrario, il bisogno di accostarsi all’Eucaristia deve essere il motivo per abbandonare tale condizione.
Il sentirsi peccatori non deve in nessun caso diventare una comoda scusa per continuare ad esserlo.

Se la tua religione

“Se la tua religione ti porta a odiare qualcuno, allora hai bisogno di una nuova religione.” Questa frase circola da un po’ nei social network a firma della “Chiesa Pastafariana”.

13923767_1338282196200772_6597681604676551045_o-1Per chi non lo sapesse i “pastafariani” sono degli atei anticlericali buontemponi, in fondo neppure del tutto antipatici. Ogni tanto organizzano un raduno e lì indossano un curioso copricapo costituito da uno… scolapasta. L’idea di fondo (a suo modo, bisognerà pur ammetterlo, geniale) del “Pastafarianesimo” è di “dimostrare” l’assurdità delle religioni dando vita a una pseudoreligione dai tratti assurdi. In pratica il messaggio è: “l’effetto che noi facciamo a te (credente) e lo stesso che tu fai a noi”. Troppo faticoso, d’altra parte, controbattere le idee altrui, meglio ridicolizzarle; è un po’ come quando, alla fine del XIX secolo, si ironizzava sulla teoria dell’evoluzione pubblicando caricature di Charles Darwin con sembianze scimmiesche. Insomma, è gente  dall’umorismo un po’ retrò.

Non mi interessa comunque parlare dei pastafariani, avevo solo bisogno di contestualizzare l’immagine di cui ho scritto sopra.

Mettiamola così: se non ci fosse stata la firma esplicita dei pastafariani, io avrei interpretato quella frase in chiave anti-islamica. So benissimo che gli islamici non sono tutti terroristi o jihadisti (anzi, nella stragrande maggioranza non lo sono affatto), ma il clima attuale mi avrebbe portato ad interpretare in questo modo. C’è però quella firma, e io so che i pastafariani (almeno quelli nostrani) non si preoccupano dell’Islam. Il loro vero nemico è il Cristianesimo, tutto il resto è contorno. In teoria non fanno distinzioni tra le varie credenze religiose, considerandole tutte false allo stesso modo, ma all’atto pratico la fede religiosa presa più di mira (anche per ovvi motivi culturali) è il Cristianesimo. E qui è il problema. Se il riferimento è al Cristianesimo, che c’entra l’odio? Il Cristianesimo porta ad odiare qualcuno?

Poiché tra le mie conoscenze c’è anche un pastafariano, ho avuto modo di discutere con lui della cosa, e così ho scoperto tantissime cose nuove, che vengo ad elencare.

Ho scoperto che i cristiani odiano gli omosessuali. Non lo sapevate? Ebbene, non lo sapevo neppure io. Pare che il problema sia soprattutto la contrarietà dei cristiani al matrimonio di persone dello stesso genere, oltre al fatto di considerare immorali gli atti sessuali di natura omosessuale. Ho cercato di spiegare al mio amico pastafariano che il fatto di stigmatizzare la condotta altrui non significa assolutamente odiare. Io credo che la sessualità esercitata tra persone dello stesso genere sia peccato, così come credo che sia peccato la gola, l’accidia, la superbia. Credo però di non aver mai odiato nessuno per il semplice motivo di commettere un qualche peccato (anche perché vale sempre il detto “Chi è senza peccato scagli la prima pietra” e io non sono senza peccato). Sembra però che il semplice fatto di essere contrari a certi diritti (veri o presunti che siano) sia segno inequivocabile di “omofobia”. Va da sé che viviamo in uno Stato laico, e  le persone omosessuali hanno tutto il diritto di lottare per quelli che ritengono loro diritti naturali. Quello che non possono pretendere è che noi siamo d’accordo. Anche dissentire è un diritto.

Ho scoperto che i cristiani odiano anche le donne. La cosa buffa è che i cristiani, per una buona metà, sono proprio donne. Se ci limitiamo a chi professa la fede cristiana con più convinzione, le donne sono addirittura in netta maggioranza. Ne viene fuori che le donne cristiane odiano le donne, e quelle particolarmente convinte le odiano in modo particolarmente feroce. Ho cercato di far notare l’incongruenza di questa cosa, ma senza risultati apprezzabili. L’amico pastafariano tira diritto nella sua convinzione: i cristiani relegano la donna a ruoli di second’ordine, tipo dare la vita a nuovi esseri umani ed educare le nuove generazioni, in più negando loro i più elementari diritti civili, come ad esempio l’interruzione di gravidanza o l’opportunità di dare “in affitto” il loro utero per dare modo a qualche riccone di permettersi di avere un figlio proprio, con il proprio DNA, senza doverlo prendere magari in qualche orfanotrofio, che non sai mai cosa trovi.

E fin qui le scoperte divertenti. Arriva purtroppo anche il momento della serietà, e così scopro, tra le altre cose, anche che  la Bibbia è piena di pagine atroci “come il Corano”. E come se non bastasse mi ha anche fatto una serie di esempi: versetti e interi episodi che dimostrano come il Cristianesimo non sia quella “Religione d’Amore” che pretende di essere. Quanto a sangue ed atrocità la Bibbia sarebbe “allo stesso livello del Corano”. Dubito che l’amico pastafariano abbia mai letto una singola riga della Bibbia o del Corano, e so anche che esiste una questione ermeneutica per il Corano così come esiste per la Bibbia. C’è però una differenza fondamentale tra la Bibbia e il Corano, ed è necessario comprenderla appieno prima di fare qualsiasi paragone.

Il Corano è un testo unitario, scritto in un periodo di tempo ristretto, per mano di una sola persona. Per un islamico tutto quello che c’è scritto nel Corano ha più o meno lo stesso valore.
La Bibbia è un insieme di libri, scritti in un periodo di almeno mille anni per mano di diversi autori. In particolare vi si distinguono due parti, una ebraica (il Vecchio Testamento) e una greca (il Nuovo Testamento). Per un cristiano ciò che è scritto nella Bibbia non ha sempre lo stesso valore. Per un cristiano tutto l’Antico Testamento va interpretato alla luce del Nuovo: “Voi avete udito che fu detto: ‘Occhio per occhio e dente per dente’. Ma io vi dico: non contrastate il malvagio; anzi, se uno ti percuote sulla guancia destra, porgigli anche l’altra”.
Già è abbastanza sciocco estrapolare dal contesto dei versetti del Corano per dimostrare chissà cosa, ma è ancor più sciocco cercare nell’Antico Testamento episodi o versetti cruenti o sanguinosi. Quella parte della Bibbia era transitoria, oggi non ha valore in sé, ma solo interpretata alla luce del messaggio cristiano. Quello che c’è scritto nel Corano per un islamico ha invece un valore abbastanza assoluto, fermo restando il fatto che anche nell’Islam c’è una cosa che si chiama “interpretazione della Scrittura”.
Che dire allora?
Spero che il mio amico non se ne abbia a male, ma, poiché l’Evangelo mi chiama ad amare anche i miei nemici, non sento il motivo di cambiare la mia religione. Resto in attesa che egli consideri con più attenzione ciò che predica la sua.

p. Daniele

Alcune utili letture (profane) per la Grande Quaresima

Libri-antichi
Quello che scriverò ad alcuni potrà sembrare provocatorio, ma non è assolutamente questa la mia intenzione. È chiaro che durante la Grande Quaresima (e durante i digiuni in genere) sarebbe meglio bandire ogni lettura profana e dedicarsi interamente alla lettura delle Scritture e dei Padri della Chiesa. Questo significherebbe anche, ovviamente, rinunciare alla televisione e all’ascolto di qualsiasi genere di musica che non sia strettamente liturgica. Sono assolutamente convinto che una disciplina del genere sia l’ideale per un monaco, ma non credo che un laico, che vive ben più del monaco i problemi del mondo, possa sempre permettersi una tale condotta di vita. Temo che in alcuni casi essa possa addirittura essere dannosa: “zelo non secondo conoscenza” direbbe forse San Paolo. D’altra parte esistono molte opere letterarie che, pur essendo a tutti gli effetti “profane”, riescono ad essere portatrici di idee cristiane. Sono opere che parlano di storie del tutto umane, con protagonisti pieni di umanissimi difetti: storie di amore e di odio, di guerra, ma anche di pentimento, di redenzione. Molte di queste opere si prestano benissimo a sostituire altri svaghi nei periodi di digiuno. Non che nello svago in sé ci sia qualcosa di naturalmente sbagliato, questo è chiaro, ma se è possibile indirizzare a Dio anche lo svago, questo può diventare un momento di crescita spirituale.

Ecco dunque alcuni libri di cui raccomando la lettura.

I promessi sposi di Alessandro Manzoni
Gli italiani imparano ad odiare questo libro sui banchi di scuola, e questa è una delle supreme ingiustizie del nostro sistema scolastico. Sì, perché questo è davvero uno dei più bei romanzi di tutti i tempi, che dietro quella che è apparentemente soltanto una storia d’amore contrastato, cela tutta una serie di riflessioni profondamente cristiane. Soprattutto è un libro che parla del pentimento: il pentimento di Renzo di fronte alla propria incapacità di perdonare, quello di Ludovico, che decide di incamminarsi nella vita consacrata, quello dell’Innominato, uomo dai molti crimini che trova alla fine Dio.

David Copperfield di Charles Dickens
Questo libro è ciò che in termini tecnici si definisce in genere come un “romanzo di formazione”. Il protagonista (l’alter ego di Dickens) racconta in prima persona le principali tappe della sua vita, dalla perdita del padre, prima ancora di nascere, a quella della madre, passando per le mille avventure che lo faranno crescere umanamente e spiritualmente. Riferirò un piccolo aneddoto su questo libro. Un giovane che si era recato sul Monte Athos per farsi monaco, aveva chiesto all’Abate una lettura spirituale. L’Abate, uomo dalla vista spirituale acuta, gli consegnò una copia di questo libro e, alle proteste del giovane (che si aspettava un libro veramente spirituale e non un romanzo sentimentale vittoriano), affermò: “Se prima non riesci a sviluppare sentimenti normali, umani, cristiani, come David, qualsiasi lettura spirituale ortodossa sarà per te di scarso beneficio…”

Dov’è morte la tua vittoria? di Henry Daniel-Rops
Un bellissino romanzo a tinte forti, una storia di morte e resurrezione, dal titolo decisamente “paolino” (una citazione dalla prima Epistola ai Corinzi). Il romanzo racconta la storia di Laura, donna dal cuore inquieto che si lascia sprofondare, come ahimè accade in molte anime sensibili, nelle più basse passioni umane. Per poi trovare la luce di Dio. Viene in mente, leggendo questo libro, un passo famoso dalla Scala di San Giovanni Climaco: “Del resto io vidi persone follemente travolte da impuri amori trarre da essi motivo di penitenza, passare cioè dall’esperienza erotica a quell’amore del Signore che trascende ogni timore, da quello spronate ad un insaziabile ardore di divina carità. Per questo il Signore disse alla peccatrice tornata a saggezza non ch’ella aveva molto temuto, ma che aveva molto amato, e perciò era riuscita a scacciare un amore con un altro amore” [Scala, V, 54]

Delitto e castigo di Fedor Dostoevskij
Mi sembra quasi di fare un torto al grande scrittore russo se cito soltanto uno dei suoi romanzi. In realtà avrei potuto citare qui moltissimi dei suoi libri. Mi limito a questo, lasciandovi scoprire da soli gli altri, perché è anche questo un romanzo di morte e rinascita, la storia di un uomo che cade e si redime, rinascendo quasi come Lazzaro nel racconto dell’Evangelista Giovanni (un racconto che si ritrova non a caso citato in una delle più grandi pagine di questo libro).

Chiaramente ci sono moltissimi altri libri che varrebbe la pena di leggere durante la Grande Quaresima, e in realtà anche nel resto dell’anno. La televisione e Internet hanno ridotto molto il tempo dedicato alla lettura. Quale scusa migliore per lasciare finalmente una cattiva abitudine in favore di una buona? Quindi, che dire? Buona lettura!

p. Daniele

Ancora su Alessandro Meluzzi

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I lettori di questo blog non me ne vorranno se mi trovo nuovamente ad affrontare la questione di Alessandro Meluzzi.

Come è noto, il famoso psichiatra e criminologo è divenuto “vescovo” e Primate della cosiddetta “Chiesa Ortodossa Italiana”. In un post precedente ho fatto alcune considerazioni in merito. Ritorno sull’argomento solo a causa di una recente intervista / conversazione apparsa sul sito web di una parrocchia del Patriarcato di Mosca. In essa l’igumeno Ambrogio (Cassinasco) dialoga con Alessandro Meluzzi riguardo alla sua conversione e alla sua realtà ecclesiale. Inutile dire che tale intervista campeggia ora in gran trionfo anche sul sito della “Chiesa Ortodossa Italiana”, nonché sulla pagina Facebook, con un titolo significativo: Sono iniziati i primi contatti tra il Patriarcato di Mosca e la nostra Chiesa. Intervista del nostro Primate al sito della Chiesa ortodossa Russa di Torino. Anche se, a onor del vero, l’intervista la fa il sito al Primate e non il Primate al sito…

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Non è mia intenzione analizzare l’intera conversazione (sebbene essa offra più di uno spunto, non c’è che dire), ma intervengo soltanto perché nel corso di tale conversazione si fa riferimento a me e alle mie considerazioni su Meluzzi.

Comincio col chiedermi innanzitutto come mai l’igumeno Ambrogio, che ha modi generalmente sgradevoli nel trattare quanti egli ritiene (a torto o a ragione) “non canonici” o “scismatici”, sia così amabile e cordiale con il noto psichiatra. Posso capire che tra i due esista un’amicizia di lunga data, su cui non ho nulla da ridire, ma una così palese parzialità di trattamento mi lascia perplesso.

Veniamo però all’intervista. A un certo punto l’igumeno Ambrogio afferma:

In questi ultimi tempi ho letto non solo molti dei commenti sulla tua scelta religiosa, ma anche le inevitabili critiche, inclusa una critica teologica che in sé espone idee abbastanza ragionevoli, ma pecca di una fallacia logica di base: fa di te un vescovo ortodosso secondo la sua prospettiva (il famoso argomento dell’uomo di paglia), poi passa a trovare gli elementi nei quali tu non rientri in questa prospettiva, e conclude dichiarandoti non ortodosso e non ecclesiale. È proprio per questo che insisto che tu possa chiarificare la tua visione ecclesiale, in modo che si possa discutere sulla base delle tue convinzioni, e non di preconcetti altrui.

La “critica teologica” a cui si fa riferimento, come si vede chiaramente dal link, è l’articolo in cui espongo le mie considerazioni su Meluzzi e la sua Chiesa. Come si vede, la mia critica è accusata di “fallacia logica”. Io avrei cioè fatto di Alessandro Meluzzi un vescovo secondo la mia prospettiva, per poterlo meglio criticare. Tale operazione sarebbe una fallacia in quanto Meluzzi non sarebbe un vescovo ortodosso “in senso stretto”: la sua chiesa porterebbe infatti il nome di “chiesa ortodossa” senza pretendere che essa abbia un qualche legame con l’Ortodossia vera e propria. Si tratterebbe, secondo l’intervistatore, soltanto di un nome. In effetti gran parte della conversazione verte sul significato del termine “ortodossia” e l’intervistatore stesso suggerisce

Credo che la maggior parte dei problemi nasca dall’accostamento di un singolo nome. Se invece di un ente che si definisce “ortodosso”, tu ne rappresentassi uno che si definisce “apostolico”, “vetero-cattolico” o quant’altro, credo che non ci sarebbero stati molti sospetti di liaisons dangereuses, e verosimilmente anche alcune polemiche.

Questo è senza dubbio vero. Vera è altresì anche un’altra cosa: non è stato Alessandro Meluzzi a fondare la “Chiesa Ortodossa Italiana”, essa esisteva ben prima di lui e non è altro che il risultato di una serie di scismi all’interno della “Chiesa Ortodossa in Italia” fondata da Antonio De Rosso all’inizio degli Anni Novanta (tanto che oggi esistono almeno tre “Chiese Ortodosse Italiane” più altre con nomi simili). Ora, tale “Chiesa” – per quanto inconsistente dal punto di vista canonico ed ecclesiale – si richiamava però apertamente alla tradizione ortodossa, riconoscendo i sette Concili della Chiesa indivisa e la prassi tipica delle Chiese Ortodosse. La “Chiesa” di Antonio De Rosso fu per questo anche in comunione con il Sinodo alternativo di Bulgaria e con la Chiesa (scismatica) del Montenegro. De Rosso si proponeva in tutto e per tutto come vescovo della Chiesa Ortodossa (e proprio per questo era considerato da tutti scismatico e non canonico). La “Chiesa” che ha poi eletto a Primate Alessandro Meluzzi aveva la stessa “pretesa di ortodossia”: si rifaceva al primo millennio cristiano, riconoscendo i sette Concili della Chiesa indivisa e almeno in parte la prassi liturgica ortodossa. Fare riferimento ai sette Concili della Chiesa indivisa significa, ricordiamolo, fare riferimento all’Ortodossia calcedoniana ed efesina. Lo stesso Meluzzi, anche nel corso dell’intervista in questione, fa riferimento ai sette Concili Ecumenici e alla tradizione ortodossa.

Perché dunque affermare che io avrei fatto di lui un vescovo “secondo la mia prospettiva”? Da uno che si professa vescovo ortodosso, e che fa apertamente riferimento all’Ortodossia calcedoniana ed efesina (quella dei sette Concili Ecumenici) io mi aspetto che rispetti quanto meno esteriormente ciò che la tradizione ortodossa prescrive per i vescovi, e lo stesso mi aspetto dalla sua Chiesa. Mi aspetto dunque che non sia sposato, poiché questa è la prassi attuale della Chiesa Ortodossa, e che nel suo clero non ci siano massoni in attività, cosa che purtroppo non è stata affatto chiarita. Voglio puntualizzare che prima del mio e di altri interventi in merito, Alessandro Meluzzi non si è mai premurato di dare chiarificazioni sulla sua appartenenza alla Chiesa Ortodossa. E a dire il vero non lo fa neppure in questa intervista.

Tanto dovevo, e se non ce ne sarà motivo non tornerò sull’argomento.

Non è mia intenzione esprimere giudizi sulle persone; una eventuale vera chiarificazione sulla “Chiesa Ortodossa Italiana” sarebbe benvenuta.

p Daniele

Noi predichiamo Cristo Crocifisso

Omelia per la festa della Processione della Preziosa e Vivificante Croce
Letture:
Apostolos: 1Cor 1, 18-24
Evangelo
: Gv 19, 6-11; 13-20; 25-28; 30-35

Icona della Croce

«Cos’è diventata la croce per il cristiano di oggi?» Questa domanda mi torna in mente a tutte le feste della Croce. È la domanda che si poneva anni fa uno scrittore italiano, Ignazio Silone, in un suo romanzo, L’avventura di un povero cristiano. E questa domanda la mette in bocca a un uomo del tredicesimo secolo, quasi a significare che questo non è un problema recente, non è un problema della nostra era secolarizzata. È un problema che attraversa la storia della Chiesa. Cosa è diventata la croce per i cristiani? E cosa dovrebbe essere, invece?

«Noi predichiamo Cristo crocifisso» scriveva San Paolo ai Corinzi«scandalo per i giudei, e follia per i gentili» (1Cor 1, 23). Scandalo e follia, innanzitutto, perché la Croce ci mostra il volto scandaloso e folle di Dio.

Scandalo. «I giudei chiedono segni»: chiedono miracoli, azioni strabilianti. Israele era abituato a un Dio che interveniva continuamente nella sua storia, un Dio che lo guidava in guerra contro i nemici, un Dio che dimostrava continuamente la sua potenza. E qui, sul legno della Croce, vedono inchiodato un Dio debole, un Dio sconfitto, un Dio che muore.

Tornano in mente le parole che lo stesso San Paolo scriveva alla sua comunità prediletta, quella di Filippi:

«Abbiate in voi stessi lo stesso sentimento che è stato in Cristo Gesù, il quale, essendo in forma di Dio, non considerò rapina l’essere uguale a Dio, anzi svuotò se stesso, prendendo la forma di servo, divenendo simile agli uomini; e, trovato nell’esteriore simile ad un uomo, umiliò se stesso, facendosi ubbidiente fino alla morte, e alla morte di croce.» (Fil 2, 5-8)

Ecco lo scandalo: un Dio che si umilia, un Dio che si fa impotente, che si fa Egli stesso maledizione, secondo le parole della Legge: Maledetto colui che pende dal legno!

Follia. «I greci cercano sapienza»: cercano equilibrio, razionalità, bellezza. I greci erano un popolo spiritualista: disprezzavano il corpo, questa carne mortale con i suoi bisogni così bassi, così ripugnati. Dio non aveva niente a che fare con la carne, per un greco. Le divinità della mitologia greca si presentavano a volte in forma umana, ma era una forma solo apparente; si concedevano a volte piaceri molto umani e terreni, ma non si concedevano mai sofferenze umane e terrene. Per i greci un dio era sempre un dio. Dio non si mescola con la carne, Dio non soffre, Dio non muore. Questo Dio dei cristiani per un greco era qualcosa di imperfetto, di irrazionale, un follia. Il primo grande fallimento di San Paolo fu proprio quando, ad Atene, cercò di predicare ai greci mettendosi sul piano della ragione, delle argomentazioni.

Scandalo e follia, dunque. Lo scandalo del Dio onnipotente che si fa impotente e la follia del Dio perfetto che si fa imperfetto, dell’infinito che si fa finito.

Noi, però, quante volte ci ricordiamo che la Croce è questo? Anzi, per tornare alla domanda da cui siamo partiti, cosa è diventata la croce per noi cristiani di oggi, per noi cristiani di sempre? A volte dentro di noi c’è un ebreo che si scandalizza della Croce, che preferirebbe un Dio onnipotente che punisca il male qui, ora, subito. Qual’è la più classica obbiezione di un ateo alla nostra fede? Paradossalmente è una domanda che troviamo nella Bibbia, nel Libro di Giobbe: se Dio è buono, perché esiste il male? Perché esiste la sofferenza? Sarebbe più facile credere in Dio se Dio dimostrasse a tutti la sua onnipotenza spazzando via il male. Noi però crediamo in un Dio impotente che muore sulla Croce.

Altre volte dentro di noi c’è un greco che si vergogna della Croce, che preferirebbe credere in un Dio lontano, perfetto, eterno. In un Dio razionalmente plausibile. Non in questo Dio folle che si lascia follemente inchiodare sulla croce.

Eppure ci dice sempre San Paolo «per coloro che sono chiamati, sia giudei che greci, Cristo è potenza di Dio e sapienza di Dio» (1Cor 1, 24) Questo Dio impotente, questo Dio assurdo mostra proprio sulla Croce la sua potenza, la sua sapienza. La Croce è un grande paradosso: della follia fa sapienza, dello scandalo fa potenza, da maledizione si fa redenzione, da strumento di morte che era si fa per noi albero di vita. Amin.

 (Omelia del 1 / 14 Agosto 2013)