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Sulla Comunione frequente

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Mi è capitato recentemente di rispondere in privato ad alcune domande sul tema della Comunione frequente. Si tratta, stranamente, di un argomento assai dibattuto. E dico “stranamente” perché l’opinione dei Padri in merito è molto chiara. Ho così pensato di rendere pubbliche le risposte.

Quanto spesso è bene accostarsi all’Eucaristia?

San Girolamo di Egina, un grande spirituale del secolo scorso, raccomandava la comunione frequente. Molti ebbero a chiedergli quanto spesso ci si debba comunicare, ed egli in genere rispondeva molto pragmaticamente: “Non hai bisogno di sapere quante volte devi mangiare: quando hai fame, mangi”, volendo significare che non esiste una regola precisa. Credo che a questa domanda non esista risposta migliore della sua.

Prendo spunto per trarne un piccolo corollario.
Se è vero – ed è certamente vero – che l’Eucaristia è il nostro cibo spirituale per eccellenza, è anche vero che per questo cibo spirituale vale la stessa regola che vale per quello corporale: né troppo, né troppo poco. Un insegnante non dovrebbe mangiare quanto un muratore (perché tradurrebbe l’eccesso di cibo in eccesso di peso) e allo stesso modo una persona che non curi molto la propria vita spirituale farà bene a non comunicarsi troppo spesso. C’è però differenza tra mangiare secondo il proprio bisogno e non mangiare affatto. Avere appetito è generalmente sintomo di buona salute: chi manca di “appetito spirituale” e non sente la necessità di comunicarsi con una certa frequenza non mostra grande salute spirituale. Chi ha l’abitudine di comunicarsi raramente dovrebbe quindi chiedersi: “Sono sicuro di star bene?”

Alcuni dicono che sia male comunicarsi frequentemente. Cosa ne pensa?

In generale, l’argomento più importante contro la pratica della comunione frequente è anche l’argomento più importante a suo favore. Molti sostengono infatti che comunicarsi frequentemente sia un errore, perché per partecipare della Eucaristia bisogna essere “degni” e “preparati”.
Questo non è in realtà un argomento serio per sconsigliare la comunione frequente; al contrario, questo è un motivo per comunicarsi il più spesso possibile.

Prima di tutto bisognerebbe dire che nessuno è degno – non nell’accezione che diamo di solito a questa parola – di partecipare al Sangue e al Corpo di Cristo. E se qualcuno pensa di esserne degno compie come minimo un peccato di superbia. Se aspettiamo di essere realmente degni, non ci comunicheremo mai.

In secondo luogo, se ci sentiamo indegni dell’Eucaristia per la maggior parte dell’anno, questo significa che la nostra vita sta percorrendo binari sbagliati. L’Eucaristia è infatti – secondo le parole di Sant’Ignazio Teoforo nella sua Lettera agli Efesini – il “farmaco di immortalità, antidoto per non morire ma vivere in Gesù Cristo per sempre”, ed esserne indegni implica l’essere indegni dell’immortalità e della salvezza.

Per le malattie del corpo ci affidiamo al medico: lui ci dirà se il nostro stile di vita è sano e in cosa eventualmente cambiarlo, quali cibi e quali attività evitare, e in più ci curerà con dei farmaci. Per la vita spirituale vale lo stesso: chi esercita la paternità spirituale su di noi ci indicherà la strada nella nostra vita spirituale. Sempre lui ci dirà quando accedere al “farmaco dell’immortalità” e quanto spesso.

Quali Padri della Chiesa sono favorevoli alla comunione frequente?

In una parola, tutti.

Qualcuno potrà citare qualche passo che sembra incitare al contrario, ma chiunque legga i Padri nel loro contesto storico sa benissimo che sono tutti dell’idea che un buon cristiano debba comunicarsi frequentemente. Ovviamente questo significa anche che un buon cristiano deve cercare di essere sempre preparato a ricevere i Santi Doni. Se non si sente preparato o degno abbastanza deve sforzarsi di diventarlo.

In cosa consiste la normale preparazione alla Comunione?

In linea generale, è necessario attenersi ad una serie di semplici regole.

1. Pregare ogni giorno.

2. Seguire il più possibile il digiuno, sia quello del mercoledì e del venerdì di ogni settimana che quello di tutti i giorni durante i periodi dell’anno che la Chiesa consacra al digiuno.

3. Sforzarsi di vivere una vita autenticamente cristiana.

4. Partecipare alle funzioni religiose del sabato sera (Vespro o Grande Veglia, secondo l’uso locale). Se questo non è possibile, leggere le preghiere di preparazione alle Comunione o altro, secondo l’istruzione del padre spirituale.

5. Essere digiuni almeno dalla mezzanotte. Alcuni praticano un digiuno di tre giorni prima della Comunione, ma quest’uso si riferisce soltanto a chi non si comunica frequentemente. Chi si comunica con una certa frequenza non è tenuto a fare altri digiuni

In quali casi è necessario invece evitare di comunicarsi?

È bene non comunicarsi quando non ci si è preparati degnamente, ma è anche bene che questo non accada troppo spesso. Chi pensa di essere un cristiano tanto indegno da non potersi comunicare neppure ogni due o tre domeniche deve innanzi tutto sforzarsi di migliorare.

Al di là di questo caso, vi sono casi che, salvo eccezioni, escludono almeno temporaneamente dalla Comunione. In linea generale, questi casi possono tutti essere condotti a una di queste situazioni:

1. Non può comunicarsi chi abbia commesso un peccato che implichi la scomunica (omicidio, adulterio o sacrilegio, per esempio).

2. Non può comunicarsi chi vive in una condizione contraria all’insegnamento della Chiesa, per esempio una persona che convive con un altra more uxorio, ma senza esservi sposata.

Vale però la pena di ripetere: l’essere in condizione di peccato non deve diventare un argomento contro il Sacramento dell’Eucaristia. Al contrario, il bisogno di accostarsi all’Eucaristia deve essere il motivo per abbandonare tale condizione.
Il sentirsi peccatori non deve in nessun caso diventare una comoda scusa per continuare ad esserlo.

Perché l’ecumenismo è una eresia?

FrancisBartholomew

Spesso mi si chiede come mai molti ortodossi siano tanto contrari al movimento ecumenico e guardino ad esso con tanta ostilità, vedendovi addirittura una eresia. I motivi sono in realtà molti e gravi, e meritano una trattazione approfondita. Mi limiterò qui a poche note fondamentali, partendo dall’esempio di una eventuale unificazione tra cattolici ed ortodossi. Non ho assolutamente la pretesa di riferire qui, in poche righe, tutte le possibili interpretazioni di un problema che è di per sé assai complesso. Mi limiterò ad enunciare quella che credo possa considerarsi la critica più ovvia, e per certi aspetti quasi banale, dell’ecumenismo, e questo perché tale critica proprio per la sua ovvietà viene spesso ignorata.

Voglio prescindere per un momento dalla questione delle differenze dogmatiche, questione a cui molti sono oggi (del tutto ingiustamente) allergici, e partire da un punto di vista semplicemente pratico. Una eventuale unione tra cattolici e ortodossi è possibile solo in tre prospettive, o se si vuole tre vie, che vengo ad esaminare.

La prima via è quella che potremmo definire come un ecumenismo “cattolico”. In tale prospettiva, il Papa di Roma conserva la sua posizione attuale, rimanendo vescovo “universale” (secondo la definizione romano cattolica) , con giurisdizione su tutta la Chiesa. Questa è, di fatto, ancora oggi la posizione del Concilio Vaticano II e di molti documenti ufficiali recenti della Sede romana, nei quali si ribadisce che non vi è vera comunione con la Chiesa se non nella comunione con il Papa. E’ chiaro che una eventualità del genere sancirebbe la fine dell’Ortodossia per come la conosciamo attualmente. Nella Chiesa Ortodossa non esiste alcun primato universale, e i vescovi hanno tutti pari dignità. Ognuno di essi ha giurisdizione diretta nel proprio territorio, e non oltre. Possiamo dire che una prospettiva del genere porterebbe gli ortodossi a smettere di essere ortodossi.

Va notato che tale posizione non è affatto nuova. E’ quella che fu portata avanti al Concilio di Lione (nella seconda metà del XIII secolo), poi a quello di Ferrara-Firenze (nel XV secolo), e che fu poi messa fattivamente in atto con l’Unione di Brest (1595-96) e in generale con quello che gli ortodossi chiamano “uniatismo”. Questi tentativi di unificazione (o per meglio dire, di assimilazione degli ortodossi a Roma) furono sempre assai modesti nei risultati e contribuirono semmai a confermare gli ortodossi in un profondo atteggiamento antilatino, soprattutto a causa di avvenimenti storici incresciosi, come lo sterminio perpetrato dal Patriarca Veccos ai danni di quei monaci athoniti che si erano ribellati all’unione di Lione. Tanto basti per dire che questa via non è assolutamente percorribile da parte degli ortodossi.

La seconda via è del tutto speculare alla precedente, e potremmo definirla come un ecumenismo “ortodosso”. Secondo questa prospettiva, il Papa di Roma dovrebbe rinunciare alla sua posizione attuale, divenendo un vescovo come gli altri (o, se si preferisce, un Patriarca come gli altri). Vale qui il discorso fatto poc’anzi per gli ortodossi: nella eventualità di un tale cambiamento all’interno del Cattolicesimo romano, gli ortodossi manterrebbero forse la loro identità, ma sarebbero i romano-cattolici a perderla. Padre Gheorgij Florovskij fu per un certo tempo un convinto sostenitore di questa via. Egli era radicalmente convinto che gli ortodossi, partecipando al movimento ecumenico, potessero in qualche modo “rendere testimonianza” alla verità. Giunse presto al disinganno, constatando come lo spirito di fondo dell’ecumenismo non permettesse una tale testimonianza.

“La nostra salvezza sta solo col Papa e nel Papa” diceva Giovanni Bosco. Ovviamente dai suoi tempi molta acqua è passata sotto i ponti, e oggi pochissimi userebbero una espressione di questo tipo. Questo però non significa affatto che per il Cattolicesimo la figura del Papa abbia perso importanza. Per molti versi, al contrario, il Papa riesce in popolarità a reggere nonostante la crisi profonda del Cattolicesimo. Saranno davvero disposti, i cattolici, ad abbandonare l’idea che la Chiesa sia retta visibilmente da un solo Vicario di Cristo? Essendo io ortodosso mi astengo dall’esprimermi per conto loro, sebbene tutto mi porti a congetturare una risposta negativa.

Queste due prime vie partono dal presupposto che la strada dell’unità sia innanzitutto una strada di assimilazione, questo perché ambedue partono da una percezione molto netta della realtà della Chiesa. Se infatti vi sono molte differenze dottrinali tra ortodossi e cattolici (anche se per semplicità mi sono limitato solo al problema della Giurisdizione universale del Papa), è ovvio che vi siano anche dei punti in comune.Tra questi punti in comune c’è la fede ferma nel fatto che la Chiesa sia già visibilmente unita ed unica. Sia gli ortodossi che i cattolici si riconoscono nella Chiesa ”Unica, Santa, Cattolica ed Apostolica”, secondo le parole del Simbolo niceno-costantinopolitano. La differenza (che non è di poco conto) consiste semmai nell’identificazione di quale sia la vera Chiesa, se sia cioè la Chiesa Ortodossa o il Cattolicesimo romano.

Veniamo dunque alla terza via: l’ecumenismo “protestante”, ovvero quella che viene generalmente detta “unità nella diversità”. Si tratta della prospettiva di fondo che anima il movimento ecumenico sin dalla sua origine. Varrà la pena di ricordare come l’ecumenismo sia nato nell’ambito del protestantesimo liberale e si sia nutrito di alcune sue idee di fondo. Va da sé che un protestante autentico, che prenda sul serio i punti fondamentali della Riforma, non potrà mai accettare un compromesso su tali punti. L’ecumenismo nasce infatti nel mondo protestante per il mondo protestante. Fuori dall’ottica della Riforma, esso scolorisce del tutto e perde di senso.
Nella nostra ipotesi iniziale, quella di una unificazione di cattolici ed ortodossi, l’unità nella diversità potrebbe avere solo due esiti antitetici. Un primo possibile esito sarebbe quello di una unità o comunione formale in cui si continua ad essere divisi su tutto: se mi si passa la metafora, sarebbe come passare dal divorzio alla separazione legale. Un altro possibile esito sarebbe quello della relativizzazione della fede: essere insieme credendo che ciò che ci divide sia soltanto relativo, e non assoluto. Questo significherebbe la perdita di identità sia per i romano-cattolici che per gli ortodossi.

Bisogna notare che questa prospettiva dell’unità nella diversità, a differenza dalle precedenti, parte dal presupposto che la Chiesa non sia visibilmente unita. L’unità della Chiesa è qui considerata o come unità invisibile da rendere visibile, o come unità solo potenziale da mettere, se così si può dire, in atto.
E’ assai curioso il fatto che sia i cattolici romani che gli ortodossi pur professando ognuno la propria forma di ecumenismo (le prime due vie di cui ho parlato) abbiano poi firmato documenti come la Charta Oecumenica [1] che sono chiare espressioni di questa terza via.

Entriamo qui nel problema delle differenze dogmatiche tra cristiani di diversa confessione. Dobbiamo a questo punto porci una serie di domande: quanto sono importanti tali differenze? Siamo davvero disposti a rinunciarvi? Un autore protestante, Alphonse Maillot, ebbe a scrivere riguardo ai rapporti  tra cattolici e protestanti, le righe che riporto:

«Bisogna chiedersi se è a causa di un’autentica convinzione cristiana che cattolici e protestanti oggi si tendano la mano o se non è, spesso, per tiepidezza ed indifferenza. Come due valorosi guerrieri stanchi di lottare senza conoscerne bene il motivo, acconsentono a stringersi la mano prima di coricarsi per dormire o per morire. Non credo che sia sempre un’autentica riconciliazione. Ci si può chiedere se la cessazione della reciproca accusa di eresia non provi semplicemente che gli uni e gli altri hanno rinunciato alle loro profonde convinzioni per trasformare in compromessi le loro approssimazioni. Il problema va posto.» [2]

Maillot tocca qui un problema profondo. Il movimento inter-cristiano, col suo strascico di dialoghi, concelebrazioni, dichiarazioni comuni, non è forse altro che il sintomo di un male che oggi indispone quasi tutte le Confessioni cristiane: la mancanza di fede. Con l’avanzata della secolarizzazione e il distacco sempre crescente tra le masse, solo nominalmente cristiane, e la Chiesa (qualunque cosa si intenda per “Chiesa”), è chiaro come tutte le Confessioni cristiane stiano attraversando un momento di profonda crisi spirituale, del tutto parallela alla crisi culturale che interessa in genere l’Occidente. Il minimalismo e il relativismo dogmatico sottesi all’ecumenismo sono, da questo punto di vista, la versione teologica del relativismo culturale che oggi tanto è in voga. Bisogna aggiungere che, come il relativismo culturale è il sintomo della crisi di identità dell’Occidente (Occidente che sembra avere ormai rinnegato le sue radici greco-latine, almeno quanto quelle cristiane), allo stesso modo l’ecumenismo non è che il sintomo di una perdita di fede. E’ chiaro che non si tratta dell’unico sintomo di questa malattia. E’ però uno dei sintomi più evidenti quest’oggi.

Concludendo, alla domanda se l’ecumenismo sia una eresia, credo di poter rispondere che esso è forse molto più che una semplice eresia.

Mi si obietterà forse che le “guerre sante” del passato non sono certamente state sintomo di salute spirituale, il che è per certi versi cosa vera. E’ anche cosa vera però che le “guerre” (sante o meno) tra i cristiani dei secoli passati hanno sempre avuto dei motivi. Il fatto di non farsi guerra non rende di per sé i cristiani di oggi migliori di quelli di ieri. Credo che sarebbe segno di grande superbia spirituale oggi, per un ortodosso, il ritenersi più cristiano di San Gregorio Palamas (che ebbe parole di fuoco contro i latini), più o meno come sarebbe segno di superbia, per un cattolico romano, il credersi più cristiano di quel Tommaso d’Aquino che fu autore di un trattato Contra errores graecorum.


[1] Consiglio delle Conferenze episcopali d’Europa – Conferenza delle Chiese europee, Charta Oecumenica. Un testo, un processo, un sogno delle Chiese in Europa, Torino, Claudiana – Elledici, 2007. Si vedano, oltre al testo della Charta, anche i commenti entusiastici di tanti teologi sia ortodossi che cattolici raccolti nel volume.

[2] Alphonse Maillot, Les Miracles de Jesus et nous, Tournon (F), Editions Réveil, 1977 («Cahiers de Réveil»); trad. it.: I miracoli di Gesù, Torino, Claudiana, 1990, p. 75


Per approfondire, si può consultare una serie di articoli e testi sull’ecumenismo da un punto di vista ortodosso